La proposta di ampliare il calendario scolastico fino a luglio sta suscitando un dibattito aspro e controverso, come è sempre accaduto per ogni proposta politica di cambiare la scuola. L’istituzione scolastica coinvolge troppi cittadini e interessi troppo differenziati: dagli insegnanti, ai genitori, agli operatori turistici e dei trasporti. Per questo risulta pressoché impossibile trovare una mediazione condivisa e innovativa. Si finisce così per accontentarsi dell’esistente con la conseguenza di ritrovarsi con una scuola bloccata da decenni, sempre agli ultimi posti delle graduatorie internazionali per la qualità.
Anche questa volta la proposta sottende la convinzione che sia la quantità di tempo in più di lezione a migliorare i risultati dell’apprendimento dei ragazzi. Si propone di “ristorare” l’apprendimento perso con la pandemia, con giorni in più di scuola per gli allievi. Eppure la correlazione quantità e qualità non sembra dimostrata dai fatti. Non vi è la riprova in apposite ricerche, ad esempio, che gli allievi siano più preparati con quaranta ore settimanali, invece che con 27 nella scuola primaria. Nemmeno nel confronto dei tempi di lezione nei vari Paesi europei vi è la conferma che sia la scuola con più ore di lezione ad ottenere i migliori risultati.
Ciò che sembra fare la differenza tra le scuole che sono ai primi posti internazionali e le altre che sono agli ultimi nella graduatoria è la preparazione degli insegnanti, la flessibilità nella gestione organizzativa, la qualità delle relazioni con la famiglia e le comunità circostanti. Occorrerebbe intervenire su questi fattori di qualità, che invero sono spesso richiamati nei documenti ministeriali, ma che non trovano modo di tradursi nel miglioramento dell’esperienza scolastica di tutti i giorni.
Un’ultima riprova di questo fenomeno si trova nel recente documento “Piano Scuola 2020 – 2021”, steso dal Comitato Tecnico Scientifico, presieduto allora dall’attuale Ministro, Patrizio Bianchi.
Tra le numerose indicazioni vi sono le seguenti: “resta ferma l’opportunità per le istituzioni scolastiche di avvalersi delle ulteriori forme di flessibilità derivanti dallo strumento dell’Autonomia, sulla base degli spazi a disposizione e delle esigenze delle famiglie e del territorio, che contemplino, ad esempio: – una riconfigurazione del gruppo classe in più gruppi di apprendimento; l’articolazione modulare di gruppi di alunni provenienti dalla stessa o da diverse classi o da diversi anni di corso; una frequenza scolastica in turni differenziati, anche variando l’applicazione delle soluzioni in relazione alle fasce di età degli alunni e degli studenti nei diversi gradi scolastici; per le scuole secondarie di II grado, una fruizione per gli studenti, opportunamente pianificata, di attività didattica in presenza e, in via complementare, didattica digitale integrata, ove le condizioni di contesto la rendano opzione preferibile ovvero le opportunità tecnologiche, l’età e le competenze degli studenti lo consentano; l’aggregazione delle discipline in aree e ambiti disciplinari, ove non già previsto dalle recenti innovazioni ordinamentali; una diversa modulazione settimanale del tempo scuola, su delibera degli Organi collegiali competenti”.
Come non riconoscere che si tratta di un’elencazione tanto puntuale quanto coraggiosa del dover essere della nostra scuola, ma quante scuole, ad esempio, hanno “sottoscritto i “Patti educativi di Comunità con il coinvolgimento dei vari soggetti pubblici e degli attori privati, in una logica di massima adesione al principio di sussidiarietà e di corresponsabilità educativa, attraverso lo strumento della conferenza di servizi”? Ci ritroviamo con lo storico problema italico del chi, del come e del quando tutto ciò potrà realizzarsi.
In verità, oggi, l’attuale Ministro è lo stesso autore delle proposte elencate, a noi non resta che auspicare che abbia la coerenza morale e il potere sufficiente di far seguire alle parole i fatti. Per onestà, si deve riconoscere che non riuscirà, se sarà lasciato solo nel far fronte ai poteri forti, che da sempre si oppongono ad una scuola autonoma, flessibile, fedele al mandato istituzionale di perseguire il benessere dell’allievo, prima delle esigenze degli operatori.
Anche questo non potrà bastare se non vi sarà un cambiamento di mentalità diffusa tra tutti i protagonisti dai docenti, ai dirigenti, fino agli studenti e ai genitori. Recentemente Gustavo Zagrebelski, già Presidente della Corte Costituzionale, in un interessante articolo puntualizzava che “La prima condizione è il rovesciamento di certe mentalità: da ciò che si obbligati a fare a ciò che si è liberi di fare. ..Per esempio: le mansioni, nella burocrazia, sono normalmente concepite come un tetto massimo e potrebbero invece rappresentare la base minima di ciò che è dovuto, che non esclude iniziative, sperimentazioni, dedizioni, tempi, ulteriori”.
Tutto questo non sarà possibile fino a che i centralismi ministeriali e sindacali continueranno a voler limitare la flessibilità organizzativa e la libertà creativa delle comunità scolastiche, con la pretesa di “imporre soluzioni uguali a situazioni disuguali ed estremamente differenti”. La libera iniziativa delle scuole non dovrebbe allarmare né i burocrati né i cittadini, a condizione che non sia lasciata all’arbitrio del singolo dirigente, ma sia condivisa negli organi collegiali sia dagli operatori che dai destinatari del servizio scolastico.
Giuseppe Richiedei