Le riflessioni presentate dalla Fondazione Agnelli il 29 ottobre al Miur, alla presenza del sottosegretario Faraone, nel corso del dibattito tenutosi sul nuovo modello di formazione iniziale degli insegnanti di scuola secondaria prefigurato nella legge della Buona Scuola, in forma di delega del Parlamento al Governo.
Andrea Gavosto ha illustrato le critiche e le perplessità della Fondazione Agnelli, sulla base delle riflessioni dell’istituto e di alcuni confronti internazionali.
Secondo quanto si può comprendere dal testo di legge (molti aspetti restano indeterminati), il nuovo sistema comprende “sia la formazione iniziale dei docenti sia le procedure per l’accesso alla professione” e funziona così:
(1) chi ha una laurea magistrale (120 crediti, di cui un minimo di 24 in discipline psico-pedagogiche e didattiche) può accedere a un concorso nazionale, vincendo il quale si ottengono;
(2) l’assegnazione a un’istituzione scolastica (o rete di scuole) e un contratto retribuito a tempo determinato di durata triennale di tirocinio. Questo tirocinio triennale è così articolato (i) nel 1° anno di contratto: corso annuale istituito dalle università per completare la preparazione nella didattica disciplinare, al termine del quale si consegue un diploma di specializzazione; (ii) nel 2° e 3° anno di contratto: tirocini formativi nelle scuole e graduale assunzione della funzione docente (anche supplenze);
(3) a seguito di “positiva conclusione e valutazione” del tirocinio triennale, il candidato sottoscrive un contratto a tempo indeterminato (ossia diventa definitivamente docente di ruolo).
Quattro sono le critiche rilevanti che la Fondazione muove a questo modello. Le riportiamo qui in estrema sintesi, rimandando all’analisi più ampia che potete scaricare in questa pagina.
Ci allontana dall’Europa. Il sistema proposto è strettamente “sequenziale”: la teoria (sia disciplinare sia pedagogica-didattica) viene sempre prima della pratica. I momenti di effettiva pratica didattica nelle scuole sono previsti solo a partire dal secondo anno del tirocinio. Finché l’aspirante insegnante è all’università non fa alcuna pratica di insegnamento. Ciò è del tutto anomalo rispetto al resto d’Europa, dove si è imposto un modello “parallelo” con l’alternanza e l’integrazione di formazione teorica e formazione pratica all’insegnamento, che cominciano già negli anni di università.
Non distingue chiaramente abilitazione e assunzione. Un principio che deve restare fondamentale per la scuola pubblica italiana è che abilitazione non significa ancora assunzione (lo diceva anche il documento iniziale della Buona Scuola). La confusione su questo punto è stata all’origine di tante criticità della storia recente della scuola italiana (vedi questione Gae). Nel modello proposto la distinzione tra abilitazione e assunzione nuovamente non è affatto chiara, se non altro perché non si parla più esplicitamente di “abilitazione” e non si comprende quando essa possa venire conseguita nel percorso. Ma il timore è che abilitazione e assunzione possano coincidere.
Non definisce modi e criteri della valutazione che portano all’assunzione a tempo indeterminato. Secondo il testo, al termine del percorso triennale di tirocinio, il candidato sottoscrive un contratto a tempo indeterminato, a condizione di una “positiva conclusione e valutazione”. Viene spontaneo chiedersi: a chi spetta una decisione così importante? Con quale rigore ci si aspetta che questa venga presa? Il testo è totalmente silente in merito. Si pensa forse di seguire per analogia il modello di valutazione dell’anno di prova oggi adottato per i neoassunti, fragile e poco rigoroso?
Dura troppo. Il sistema prevede che un insegnante si formi in 8 anni. Tenuto conto che in media un laureato italiano consegue il titolo in 7 anni, gli anni totali per diventare docente diventano 10. Decisamente troppi, anche alla luce di quel che accade negli altri sistemi europei (ad esempio, il sistema tedesco, forse il più lungo, può avere una durata al massimo di 6/7 anni. Inoltre, col sistema proposto si posticipa eccessivamente il momento della scelta di una giovane di diventare insegnante, che avviene di fatto alla conclusione della laurea magistrale, rischiando di diventare una scelta “residuale”, in mancanza di meglio.
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