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Fondi PNRR e il “gran rifiuto” della scuola romana

Ha suscitato non poca meraviglia la notizia del Consiglio d’istituto di una scuola romana che ha rifiutato maggioranza ben trecentomila euro di risorse provenienti dal PNNR.

Il caso è interessante per diverse ragioni. Innanzitutto esso esemplifica e racconta attraverso la scuola ciò che sta accadendo in Italia, nelle sue diverse articolazioni amministrative e governative, riguardo la possibilità dell’impiego di ingenti somme di denaro per l’ammodernamento del Paese.

Va ricordato come tale misura sia, fra le altre, figlia della stagione emergenziale del Covid e come essa intenda, almeno nelle intenzioni, essere una risposta comune europea di rinascita e resilienza ad ingenti e sempre più impellenti problematiche ambientali in una prospettiva ecologica.

Va, altresì, ricordato che tali risorse non sono un regalo dell’Europa all’Italia, ma un prestito che gli italiani successivamente dovranno rendere.

Ora, vero è che il denaro, anche quello preso in prestito, soprattutto prima di averlo incominciato a pagare, sembra essere un regalo irrinunciabile; vero è che alla fine a pagare sono sempre i più poveri, non fosse altro che per quella tacita legge dell’economia politica secondo la quale i poveri sono sempre più numerosi dei ricchi e pertanto pagano meglio e più dei ricchi; tuttavia risorse così importanti non possono e non devono essere sprecate per le ragioni che tutti noi conosciamo e che – credo – almeno teoricamente condividiamo.

Se è vero che la scelta del Consiglio d’istituto della scuola romana è stata non poco ardita, non bisogna, però, dimenticare alcune delle motivazioni che l’hanno sostenuta:

  1. L’acquisto di beni e servizi volti alla digitalizzazione degli ambienti di apprendimento si scontra di fatto con la chiara, tristemente manifesta, inadeguatezza e decadenza delle nostre strutture e dei nostri spazi scolastici.
  2. Le pratiche didattiche della scuola italiana, soprattutto nei gradi superiori, sono inoltre per lo più trasmissive e ciò per ragioni legate proprio agli ambienti d’apprendimento (numero di alunni per classe, inadeguatezza dei quadri orari, riformismo raffazzonato), alla formazione, professionalizzazione ed incentivazione del lavoro degli insegnanti nella prospettiva di una scuola professorale più che astrattamente dirigenziale (fallimento altrettanto certificato della tanto discussa o decantata autonomia scolastica).

In verità, riguardo quest’ultimo punto sembrerebbe che i membri del Consiglio abbiano mostrato la loro contrarietà, tout court, rispetto alla cosiddetta epoca digitale, ritenendosi culturalmente affezionati alla civiltà lineare della scrittura alfabetica e del libro. Non bisogna qui, però, mancare di ricordare loro come anche Platone fosse stato severo nei confronti della scrittura. Certo, gli strumenti forgiano il pensiero, ma proprio per questo la scuola non può ignorarli, soprattutto quando essi divengono dominanti.

Piuttosto, il vero problema da loro sollevato è – a mio parere – l’inutile ed ennesimo spreco di risorse in una scuola dove piove dai tetti, mancano i riscaldamenti, i bagni sono antigienici, le porte e le finestre sono rotte, sono assenti mense e spazi adeguati, dove bambini e ragazzi vanno in giro con zaini carichi di pesanti manuali, dove già durante il covid e negli anni passati si è speso tanto senza evidenze davvero trasformative e formative, anzi sembrerebbe che la scuola, quella pubblica, si stia ritagliando addosso l’abito d’indefinito asilo dell’intrattenimento.

Per la scuola italiana le risorse del PNNR sono irrinunciabili, ma altrettanto irrinunciabili ed inderogabili sono forse tali tristi e dolenti note.

 Carlo Schiattarella

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