Giorni freddi per aule e palestre scolastiche. E studenti in rivolta. Ricordo che nel lontano 1977 – ero in 5ª liceo – avvenne una cosa simile nella scuola che frequentavo io. Chi si imbacuccò, chi corse dal preside a protestare. Il capo d’istituto (allora si chiamava così) deliberò che – essendo noi dell’ultimo anno tutti maggiorenni – potevamo scegliere: o andare a casa firmando un documento che esonerava la scuola da ogni possibile inconveniente in itinere, oppure restare a fare lezione. La materia era tedesco, quella che poi avrebbe caratterizzato il mio futuro professionale.
L’insegnante, un profugo dai Sudeti, da buon tedesco ligio al dovere decise di rimanere al suo posto. Io e alcuni compagni rimanemmo e facemmo lezione. Non siamo neanche morti di freddo.
Giunto a casa raccontai la cosa ai miei genitori (riferivo sempre tutto quello che capitava a scuola) e mia madre sentenziò: “se penso che quando c’era la guerra gli studenti studiavano al lume di candela per via dell’oscuramento anti-bombardamenti; e che i nostri poveri soldati in Russia affrontavano temperature di 40° sotto zero!…”.
Non voglio dire che gli adolescenti infreddoliti di oggigiorno non abbiano ragione, ma… fare un piccolo sacrificio (perché le pur basse temperature non sono tali da poterlo definire grande) per qualche ora o anche qualche giorno in nome dello studio e dell’apprendimento? Già, ma parole come “sacrificio”, “rinuncia”, “impegno” sono ormai bandite dal vocabolario dei giovani.
Peccato, perché appena dovranno affrontare situazioni che comportino l’applicazione di questi tre requisiti – perché senz’altro prima o poi gli capiterà – andranno subito in crisi.
Daniele Orla
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