In un recente articolo su ilLibraio.it, Enrico Galiano, insegnante e scrittore, critica il metodo attuale di reclutamento degli insegnanti. Galiano evidenzia come le prove concorsuali siano spesso anacronistiche e lontane dalla realtà scolastica quotidiana. Ad esempio, richiedere ai candidati di preparare lezioni su temi complessi per studenti di terza media con diverse esigenze è insensato. Galiano propone un cambiamento radicale: valutare gli insegnanti basandosi sulla loro capacità di interagire e relazionarsi con gli studenti, piuttosto che sul semplice nozionismo. L’insegnamento, secondo lui, è un mestiere che richiede passione, empatia e un’abilità comunicativa che va ben oltre la preparazione accademica.
Non so se lo sapete, ma in questi giorni si sta svolgendo un concorso straordinario (il bis, dicono) per reclutare nuove leve di insegnanti di ruolo. Come sempre accade in questi casi, se ne vedono davvero delle belle: cose che farebbero un po’ ridere, se non facessero soprattutto pensare. Per esempio: ad alcuni candidati è stato chiesto di preparare una lezione, per una terza media, incentrata su Gianfranco Contini che scrive di Ungaretti e Leopardi: ora, io non so che terze medie conoscano quelli del Ministero, di sicuro io mi immagino alcuni miei simpatici soggetti e, giuro, Contini con loro riuscirei a immaginarlo solo come forma di vessazione dopo che hanno scatenato l’ennesima rissa in cortile.
O anche: “Il candidato/a illustri un’attività didattica avente per argomento: il mito dei morti in Pascoli, secondo il critico Cesare Garboli”. E il bello è che nella traccia è anche specificato: “Da presentare in una classe terza, in una piccola scuola di una cittadina di provincia, con al suo interno alunni con background migratorio e due alunni con disabilità”. E certo: perché io a Gurpreet, indiano del Punjab che non parla mezza parola di italiano, vado a spiegare Cesare Garboli, come no! E sono sicuro che Amina, musulmana appena arrivata qui, non vede l’ora di tuffarsi nella critica letteraria del novecento! Ma al di là di tutto questo.
Al di là di domande assurde, che – lo spero – siano capitate per qualche errore di sistema: il punto è davvero tutto un altro. Sono anni che lo diciamo ai quattro venti, ma la sensazione da più parti è appunto quella di parlare al vento: è ora di cambiare il modo in cui vengono reclutati gli insegnanti. Non se ne può più di questi metodi che mettono sempre la parte nozionistica al centro di tutto. Non se ne può più della formula-esame, soprattutto: con la commissione dietro la cattedra che valuta gli insegnanti senza… la sola cosa che proprio non dovrebbe mancare: una classe! Già da prima lo sapevamo, ma due anni e mezzo di pandemia lo hanno reso lapalissiano, ormai: insegnare è soprattutto lavoro di relazione. Un buon insegnante non sarà mai chi ne sa di più, o chi sa fare bella figura davanti a una commissione, preparando lezioni fantasmagoriche: un buon insegnante lo devi vedere all’opera. Come parla con Gurpreet. Come si rivolge ad Amina.
Cosa fa per aiutare Sara, che a casa ha due libri di cui uno di ricette. In che modo sostiene Francesco, dislessico, che è convinto di essere stupido. Insegnare è una cosa che si fa con le mani, con la testa, col cuore, con lo sguardo, con la voce, è essere attori, psicologi, divulgatori, architetti, comici spaventati guerrieri. Questo è. Come fai a capire se una persona è adatta a questo mestiere delicatissimo, se non lo vedi interagire con bambine e bambini, con ragazze e ragazzi?
La pandemia ha portato tanto dolore ma ci ha fatto anche il regalo di una consapevolezza non più eludibile: può insegnare solo chi davvero è portato per farlo, e soprattutto chi ci crede fino in fondo. Chi sa ascoltare quelle voci così indecifrabili di ragazze e ragazzi. Chi sa affascinare, appassionare, accendere fuochi più che riempire vasi. Quando lo capiremo per davvero?
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