Ancora fresche di lezione in classe, un gruppo di studentesse si dirige sul luogo di un delitto e proprio davanti alla fossa dove, fino a poche ore prima, era sepolto il corpo di un ragazzo di appena diciotto anni, iniziano a scattare foto con il telefonino.
“Sapevano benissimo ciò che era successo: siamo arrivati insieme e ho sentito che, fra di loro, dicevano: ora lo fotografo per mandarlo a mia madre”.
Mentre l’inchiesta sull’uccisione di quel giovane va avanti, scrive La Repubblica, l’immagine dei “selfie” davanti alla buca fa il giro della rete, suscitando la consueta girandola di pareri contrastanti.
Questi, li hanno definiti taluni osservatori, sono “come la quiet generation: una generazione tranquilla, ma corazzata da un vuoto pneumatico che li circonda e li estrania da ogni emozione. Ai nostri occhi quella fossa rappresenta una persona che è stata uccisa. Guardandola, possiamo indignarci, commuoverci, provare rispetto verso chi non c’è più. Per questa generazione, invece, l’unico mezzo per entrare in relazione con i fatti è lo strumento mediatico. La foto è il modo con il quale si impossessano di un evento o di un luogo, ma lo fanno senza emozioni. Non lo sentono. Questa difficoltà educativa a entrare in empatia con le situazioni e con le persone rappresenta, a mio avviso, il vero campanello d’allarme”.
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Marco Rossi-Doria, maestro di strada nei vicoli di Napoli e già sottosegretario all’Istruzione, ragiona: “Un fosso di periferia. Le ragazze intorno con i cellulari. Un gesto di ogni momento nel luogo che però evoca la fine terribile di un altro povero ragazzo ucciso. Perché accade tutto questo? È difficile rispondere. Ma ovunque ora – e non solo tra i ragazzi – lì per lì ogni cosa vale come le altre. Il bacio davanti al mare. Il gol al calcetto. La buca dove è stato trovato un giovane assassinato. La faccia dell’amica mentre ride di te. Succede un fatto – che sia bello, terribile, banale, nella vita individuale, nel quartiere, in classe, nella città. E io lo metto nel mio cellulare. Adesso. È tutto sullo stesso piano e dura per quel momento lì che tu scatti col cellulare. È così che lo affianchi, lo registri, lo rimandi, vai oltre. L’unica cosa che cambia è se riguarda te, proprio te. Allora ci ritorni, ti disperi o ti dà gioia. E ridiventa vero”.
Ma se le cose stanno così, aggiunge Rossi-Doria a Repubblica, “abbiamo, tutti, un compito. Civile, politico, umano: le cose comuni devono potere ridiventare tue. E per farlo il quartiere, la vita, il parlare, il lavoro devono ridiventare nostri. Comunità. È il compito di chi educa, di chi promuove sviluppo, di una politica che abbia senso. Di ogni città. Per tirarci fuori dall’alienazione, dalla banalizzazione. E ridare finalmente prospettiva e speranza a questi ragazzi”.
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