La Gender equality è un obiettivo ancora lontano, che si scontra talvolta con una vera e propria illusione di parità, come ci avverte l’indagine di Save the Children, XI edizione dell’Atlante dell’infanzia rischio in Italia, di cui abbiamo parlato anche in altri articoli mettendo in luce le questioni della povertà educativa, della condizione della bambine, degli effetti della pandemia sulle disuguaglianze di genere.
Tutte criticità preoccupanti. Eppure c’è un dato da cui ripartire per mettere in moto gli equilibri sociali e lavorare su quella che a livello internazionale viene definita l’agenda della gender equality: le bambine e le ragazze hanno carriere scolastiche migliori dei propri coetanei maschi, dalla scuola primaria all’università. Sono più brillanti, più disciplinate, più determinate e orientate all’obiettivo. Così, finiscono per laurearsi 1/3 delle ragazze a fronte di 1/5 dei ragazzi.
Da lì in poi, è tutto un perdere posizioni, in fatto di carriera, di remunerazione, di riconoscimento del proprio ruolo, di prestigio sociale. Un furto bello e buono, che pesa sull’economia dell’intero Paese, se pensiamo che delle posizioni di vertice sono occupate da uomini non all’altezza del proprio ruolo.
Una situazione rispetto alla quale gli esperti parlano di illusione di parità, quel fenomeno per cui sino agli anni di scuola le donne percepiscono come equo il proprio ambiente, per scoprire poco dopo di non avere le stesse opportunità degli uomini nella carriera professionale, anche a causa di quegli stereotipi sociali che influiscono alle volte proprio sulle donne stesse, quando, ad esempio, si dicono convinte di essere più portate per le materie umanistiche rispetto a quelle scientifico-matematiche.
Un fenomeno, questo, definito come segregazione formativa, che vede le donne protagoniste in aree di studio dalle scarse prospettive lavorative e minoritarie sul fronte “hard stem”, acronimo di Science, Technology, Engineering and Mathematics.
“Apparentemente può sembrare una scelta libera da condizionamenti,” come si legge sul report di Save the Children, “in realtà è l’effetto di dinamiche più profonde. Non c’è un’adeguata valorizzazione del contributo delle donne alla scienza, con la conseguente assenza di modelli e di rappresentazione. Al contrario, la narrazione collettiva, anche dei media, è ancora troppo legata all’idea dello scienziato uomo autorevole e di successo. In questo neppure la scuola è riuscita pienamente, fino ad ora, a decostruire il modello dominante per indirizzare e stimolare parimente alunne e alunni verso le materie scientifiche.”
Ed eccoci alla scuola, per l’appunto. Si lavori a scardinare lo storytelling che vuole le donne brave in Italiano e poco portate per la Matematica. E si incentivino tutti gli alunni, con l’occhio all’eguaglianza di genere, a perferzionare la propria formazione scientifico-matematico-tecnologica.
Ancher l’Invalsi, del resto, rispetto a questi temi ha osservato che una “specializzazione” selettiva delle competenze, ad esempio, si osserva molto precocemente, già a partire dalla scuola primaria, nella quale si afferma la prima divaricazione di aspettative: dalle bambine ci si aspettano migliori competenze di alfabetizzazione; dai bambini migliori performance matematiche, sulla base di condizionamenti familiari e culturali e anche a ragione delle capacità della scuola di motivare e valorizzare aspettative e competenze.
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