Si tratta di una vera e propria epidemia di disagio mentale tra gli adolescenti, è questo il grido di allarme lanciato dallo psicologo Haidt, una generazione ansiosa provocata dai social.
Nel nuovo libro, Haidt accusa l’utilizzo errato ed eccessivo degli smartphone e l’iperprotettività dei genitori, e punta il dito sul sottotitolo sui social, ulteriore causa di rovina dei “nostri figli”.
Una generazione ansiosa per colpa degli smartphone
Il cellulare è diventato uno strumento indispensabile della nostra vita, come adulti lo usiamo per scattare foto, chattare, girare video, ascoltare musica, consultare una mappa stradale, fare operazioni bancarie, ordinare cibi, prenotare viaggi. Ormai tutti i processi personali girano intorno al dispositivo mobile.
Ovvio che non si discute il beneficio e il valore aggiunto portato dagli smartphone, da internet e dai social, si analizza e si mette in discussione, l’abuso che ne fanno i ragazzi e i bambini.
Haidt nel suo libro ha l’obiettivo di voler dimostrare, con i dati a supporto della propria tesi, la responsabilità dei social nell’aver causato una vera e propria epidemia di disagio mentale tra i ragazzi, definendola “generazione ansiosa”. Parliamo della generazione Z, quelli nati dopo il 1995, i primi a vivere da bambino a stretto contatto con cellulari e tablet, nati e cresciuti in mezzo ai social.
Un mondo, lo descrive lo scrittore e psicologo, “attraente e ipnotico” che crea ansia e depressione: sono triplicati ad esempio casi di autolesionismo tra i 10 e i 14 anni, mentre per quanto ai suicidi l’incremento è stato del 167%, tra le ragazze tra i 10 e i 14 anni del 91% tra i ragazzi della stessa età.
Secondo i dati pubblicati nel libro la depressione tra i ragazzi americani, in questo periodo, è cresciuta del 161% per i maschi e del 145% per le femmine, l’ansia è incrementata del 139% e il tasso di suicidi del 91% tra i maschi e del 167% tra le femmine.
I motivi di questa traslazione dal mondo reale a quello digitale
Alla base di questo fenomeno secondo lo psicologo (fonte Corriere e Avvenire), è il cambiamento nel “modo di intendere l’infanzia avvenuto negli anni 80”. I genitori, secondo l’analisi sociologica riportata nel libro, hanno avuto paura di lasciare i figli nel mondo esterno, facendoli passare da una infanzia basata sul gioco a una infanzia basata sul telefono dove i bambini sono protetti dal mondo esterno ed abbandonati nel mondo digitale ben più pericoloso perché non è possibile cogliere i propri limiti, fare esperienza, imparare come nella realtà.
L’autore prova anche a proporre alcune azioni in grado di mitigare il fenomeno, ribadendo l’importanza del gioco libero, responsabilizzarli con alcune attività reali, gradualità e moderazione nell’uso degli strumenti digitali (consiglia di consegnare il primo smartphone ai ragazzi non prima dei 16 anni) e invita a muoversi tutti insieme perché da soli è difficile cambiare approccio e mentalità.
Sono suggerimenti di buon senso, ma l’aspetto fondamentale è quello di muoversi tutti insieme.
Che gli smartphone abbiano un impatto sulle nostre vite è fuori di dubbio, che lo abbiano anche sugli adolescenti lo dicono i numeri, ma avremo piena certezza solo quando questi ragazzi saranno diventati adulti se e come avranno avuto impatti sulla loro personalità.
Di certo istituzioni, scuola, genitori, educatori tutti devono muoversi nella stessa direzione.
Vietare solo non ha senso, educare e formare ad un uso appropriato è quello che serve.
Porre dei limiti temporali, spingere i ragazzi verso la vita reale affiancandola a quella reale sono le due vere sfide che vanno affrontate.
Forse il libro andrebbe letto tutti insieme in classe e a casa spegnendo per una volta i cellulari. Genitori compresi!