A scuola si parla molto, giustamente, degli studenti, delle nuove generazioni, delle nuove domande, di speranze e di valori, etc., cioè di futuro, sapendo bene la gravità del momento. Ma poco si parla dei genitori. Nel senso delle nuove generazioni di genitori.
A parte un certo utilitarismo, cioè la mera richiesta dei voti dei propri figli, i genitori oggi sono i grandi assenti dalla vita della scuola.
Solo piccole minoranze vanno oltre i voti in pagella, si interessano dei problemi della scuola, danno, cioè, una mano concreta. Guardando il panorama generale, direi che prevale, sul piano formativo, una sorta di delega in bianco, nel senso che si scaricano in troppi casi le proprie responsabilità educative sui docenti e, più in generale, sul sistema scuola. Non tutti, ma tanti sì.
Invece, il vero toccasana di ogni scuola è la loro presenza attiva. Non è un caso che anche il “servizio pubblico” scolastico è giusto che venga ripensato in termini di “rendicontazione sociale”. Con nuove attenzioni, nuova governance e nuove risorse. La vera priorità di un Paese che investe sul proprio futuro. La partecipazione dei genitori alla vita della scuola come “sistema educativo” è fondamentale, imprescindibile. Ciò che noto, però, soprattutto negli ultimi anni, è un certo cambio di sensibilità verso questa complessità della scuola.
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In altri termini, troppi genitori si limitano a fare i sindacalisti dei propri figli. Si limitano cioè a richiedere alla scuola una prestazione, più che apprezzare lo sfondo educativo. Lo sappiamo, le famiglie sono su tanti aspetti in crisi. Anzitutto come istituzione, cioè come autorità e autorevolezza, poi come relazione educativa. Lo si vede da quell’aria, in troppi ragazzi e ragazze, di presunta autosufficienza, che preoccupa i loro “vecchi”. E allora la scuola diventa l’ultima spiaggia, l’ultima possibilità per un recupero di dialogo in casa. Questo fa da pendant al fatto che, in troppi casi, prevale il modello del «genitore chioccia», causa, ce lo dicono diversi studi, di tante ansie che vengono poi “scaricate” sui propri figli.
Quanti genitori, con la propria auto, pretendono di “scaricare” i propri figli davanti al cancello della scuola, quanti protestano perché i figli devono attendere anche 20 minuti un bus, oppure fanno confronti esagerati tra le valutazioni del proprio figlio e quelle di un compagno, invocando la giustizia tradita? In poche parole, le nuove generazioni di mamme e papà tendono ad essere iper-protettive: quanti ragazzi proprio per questo, non riescono ad affrontare e superare le situazioni di paura, di conflitto, di difficoltà?
Ogni anno impegno intere giornate a spiegare ai genitori che una insufficienza, anche una bocciatura, non è un dramma infinito, ma un momento che richiede nuova convinzione ed energia positiva. “Nessuno nasce imparato”, ripeteva Totò.
Un recente studio australiano, pubblicato sul giornale scientifico PlosOne ha, per farla in breve, messo in evidenza come i bambini troppo controllati e difesi dai genitori hanno più possibilità di diventare ansiosi in futuro.
Proviamo a fare una verifica: chi sveglia ogni mattina i propri figli per andare a scuola, perché non arrivino in ritardo? Chi si è accorto che il telefonino è il “cordone ombelicale più lungo del mondo”, come l’ha definito Richard Mullendore? Tutti questi comportamenti, come è ovvio, hanno delle conseguenze.
L’eccessivo protezionismo produce ansia, insicurezza, dipendenza; di converso, prima o poi, produce ribellione, ricerca del limite, anche trasgressione. La “giusta misura” invece si chiama “autonomia responsabile”, cammino, cioè, verso la maturazione, quindi il sano protagonismo, il coraggio dei propri talenti, la fiducia in se stessi e nelle mille relazioni. Quanti genitori a scuola, ad esempio, intervengono oltre misura sui docenti, sulle loro valutazioni e programmazioni? Basterebbe chiedere se, al loro posto di lavoro, sarebbero disposti ad accettare volentieri non sempre giustificate e competenti intromissioni. Se certe cose non vanno, ovviamente, è giusto rilevarle. Ma educare i figli anche alla comprensione di queste complessità, anche alle contraddizioni, non è mai tempo perso. I genitori sanno, o dovrebbero sapere, che è fondamentale tenere sempre un passo indietro nei confronti dei propri figli.
Nel senso di una presenza discreta, non troppo distaccata, ma nemmeno troppo pressante. I ragazzi, cioè, vanno aiutati anche a sbagliare, perché è solo sbagliando, ce lo ripetiamo spesso a scuola, che si impara, che nasce la ricerca del perché dell’errore, e quindi della verità a partire dalla quale l’errore è errore. Vanno aiutati a non avere paura degli imprevisti, dell’ignoto, degli insuccessi. Così maturano più in fretta, nel senso di consapevolezza di sé e degli altri, dei “pari”, cioè delle infinite relazioni. Ricordo bene, qualche tempo fa, il dibattito in terra americana sulle “mamme-tigri” che spingono i propri figli oltre il limite della competizione con se stessi e con gli altri. Da noi, invece, domina in alcune ricerche la figura del “papà-orsetto”, sempre pronto a lenire, con il proprio calore, la durezza del mondo reale, troppo competitivo.
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