Riceviamo e pubblichiamo un intervento di un insegnante di geografia in servizio in un istituto scolastico superiore statale di Roma sulle difficoltà che permangono per l’insegnamento della disciplina nelle nostre scuole.
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Qualsiasi governo ci sia stato negli ultimi 30 anni non ha minimamente preso in mano la situazione per valorizzare una materia fondamentale come la Geografia. Anzi, progressivamente le ore scolastiche dedicate alla disciplina sono sparite quasi del tutto, con il “contentino” alle superiori dell’ora obbligatoria (stile religione) reinserita dalla ministra Maria Chiara Carrozza dieci anni fa.
Ma da allora non è migliorato nulla, anzi. Nel 2024, ci ritroviamo a parlare di Russia e Ucraina a ragazzi che non sanno minimamente dove si trovano le due nazioni anche a scala continentale, quali peculiarità e cultura hanno; Israele e Palestina idem, se poi si parla di Taiwan e Cina allora si scende nel grottesco.
Senza andare geograficamente troppo lontano il problema di fondo dell’ignoranza atavica e sistematica si sposta sulla nostra Penisola: si parla di “valorizzazione del Made in Italy” ignorando che le nuove generazioni posizionano ancora Palermo in Toscana, Campobasso in Campania, Venezia in Piemonte e via dicendo, che non conoscono le province del Lazio, che non conoscono e non distinguono i paesaggi antropizzati da quelli naturali (cioè volgarmente una casa da una montagna), una carta fisica da una politica.
A volte, nemmeno una Regione dall’altra, come è accaduto ad Expo Milano 2015 quando la Toscana fu scambiata per Emilia Romagna e viceversa in una grottesca quanto raccapricciante figuraccia di portata globale. Ma la colpa non è degli studenti, il problema è a monte non a valle; è di chi non dà loro gli strumenti per capire e conoscere il mondo, per non fare figure tremende di fronte ad un pianeta che si evolve e loro restano sempre lì, al palo.
La scomparsa quasi totale della Geografia nelle ore di lezione ha portato dei danni incalcolabili nella formazione dei cittadini di domani, delle nuove generazioni che si presentano al mondo sprovvisti di quelle competenze necessarie per poter aspirare a qualcosa di più di un semplice oratore o di un masticatore di gomma incallito pronto a fare il palloncino e a bucarlo ridendo.
Qui, purtroppo, non c’è nulla da ridere. Bisogna muoversi, se non vogliamo avere generazioni di nuovi schiavi informatici che chattano a mille all’ora tra una faccetta e l’altra, e non sanno trovare Napoli su una semplicissima carta geografica. Ci sarebbe tanto da dire anche sull’insegnamento della geografia, associata a livello di insegnamento spesso erroneamente non alla specifica classe di concorso A21.
Eppure ci sono diverse disposizioni legislative (a partire dal DL 19/2016, DLGS 61/2017) e giudiziarie (come la sentenza del Tar Lazio 10289/2017) che sanciscono espressamente come l’insegnamento della geografia sia ad appannaggio dei geografi della A021: d’altronde, dovrebbe essere normale che un geografo insegni geografia, che un architetto insegni arte, che uno storico insegni storia, che un matematico insegni matematica, e via dicendo.
Sarebbe normale in un paese normale. Invece, ci ritroviamo con i biologi che si occupano di geografia, storici a dar vita a quell’ibrido nefasto di Geostoria, insegnanti di italiano a spiegare l’ora di geografia in dotazione (non di rado senza effettivamente farla), solo perché si è superato un esame en passant durante gli studi universitari, bypassando sulla loro voragine di conoscenze disciplinari. E pure senza il minimo aggiornamento: così si arriva a dire in classe che la Jugoslavia non c’è più, la Cecoslovacchia invece esiste, abbiamo il Sud Sudan.
Un barlume di speranza che un giorno la situazione possa sbloccarsi, portando in cattedra insegnanti di geografia che conoscono la materia, c’è sempre. Ma la candela si sta spegnendo e neanche troppo lentamente.
Andrea Curti, docente di Geografia di ruolo
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