È la sindrome da pagina bianca o cos’altro che spinge Gian Antonio Stella in questo vortice monotematicamente ossessivo, con due articoli pubblicati in rapida successione sul Corriere della Sera? Oggetto di entrambi: gli scadenti standard di qualità di buona parte dei docenti italiani.
Il primo – già ampiamente commentato su queste stesse pagine – stigmatizzava le presunte generosità dei docenti del Sud nell’attribuzione dei voti agli esami di stato; il secondo – di qualche giorno fa – attribuiva la patente di somaro ai docenti che non avevano superato lo scritto all’ultimo concorso a cattedre. Ora, vero è che in Italia siamo tutti commissari tecnici quando si parla di calcio e tutti in grado di esprimere giudizi sulla scuola (d’altronde siamo stati tutti alunni, anche se magari non tutti laureati…), ma è altrettanto vero che c’è un limite a tutto!
Gian Antonio Stella si diverte ad esporre al pubblico ludibrio i candidati a una cattedra che nel compito hanno dato prova di scarsa conoscenza della lingua italiana, sottolineando un apostrofo in più o un “peer touring” piuttosto che un “peer tutoring”. Ma non si interroga, ad esempio, sull’iter che ha condotto alla formazione delle commissioni esaminatrici: i compensi prossimi allo zero hanno tenuto ben alla larga da questa incombenza i docenti più esperti e aperto autostrade a chi, per svariati motivi, ha accettato di farne parte. È il cane che si morde la coda: usciremo mai da questa impasse se il Governo si rifiuta di investire seriamente in formazione? Se non riesce a ridare legittimità e prestigio sociale a tutti quei professori che, grazie allo loro infaticabile opera, tengono in piedi una scuola negletta e abbandonata?
Usciremo mai da questa impasse se una delle firme più accreditate del giornalismo italiano continua, fuori da ogni logica, a lanciare strali sui docenti italiani? Stella si rifiuta di comprendere che se anche tra i circa ottocentomila docenti italiani settantamila non fossero esattamente degni dell’Accademia della Crusca, i numeri sarebbero più o meno proporzionalmente simili a quelli dei giornalisti che apostrofano “un” seguito da un maschile o dei medici che sbagliano una diagnosi condannando a morte certa il paziente. Che si fa? Li si manda tutti al rogo?
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