Le dichiarazioni di Stefania Giannini sullo sciopero del 5 maggio sono alquanto curiose.
In sintesi, il ministro afferma che lo sciopero è del tutto legittimo (e questa è una chiara tautologia, sarebbe ben grave se un Ministro della Repubblica sostenesse il contrario, visto che il diritto di sciopero è espressamente previsto dalle leggi, anzi dall’articolo 40 della Costituzione).
Ma poi aggiunge anche che il Governo continua a lavorare per costruire il consenso sulla riforma che, quando sarà compresa bene, sarà accettata da tutti.
Su quest’ultimo punto vale la pena di fare un paio di considerazioni.
Ora, bisognerebbe onestamente prendere atto (e anche il Ministro dovrebbe farlo) che il tempo per costruire il consenso c’è stato: il progetto sulla Buona Scuola era stato presentato il 3 settembre e per almeno un paio di mesi non c’è stato giorno (o quasi) in cui il Ministro e il suo staff non abbiano sollecitato scuole, insegnanti, dirigenti, studenti e cittadini a partecipare alla consultazione on line.
Sono stati raccolti centinaia, migliaia di pareri e proposte; in più circostanze il Ministro si era premurata di sottolineare che la consultazione stava andando benissimo e che c’era grande interesse sul progetto.
Poi fra annunci e rinvii si è arrivati alla metà di marzo e alla approvazione del testo del disegno di legge da parte del Consiglio dei Ministri.
Sono continuati convegni, seminari e incontri nel corso dei quali il Ministro e il suo staff hanno tentato di convincere il mondo della scuola sulle “magnifiche sorti e progressive” che si sarebbero ben presto aperte per tutto il Paese grazie alla riforma messa in cantiere.
Delle due l’una: o il Ministro e il suo staff sono stati poco convincenti o il mondo della scuola non è stato capace di capire il messaggio che arrivava da Viale Trastevere. In ogni caso è davvero difficile (forse impossibile) che adesso, in pochi giorni, il Governo possa aggiustare il tiro e far comprendere la bontà della proposta.
E quindi sarebbe bene se il Ministro (e il Governo) incominciassero a pensare ad una “exit strategy” che consenta di limitare i danni politici (ed elettorali) che la linea del non-ascolto (perchè questa è stata finora la modalità utilizzata) potrebbe provocare.