Nell’analisi fatta dalla Gilda Insegnanti di Cuneo, proposta dai sindacalisti Antonazzo e Rampado, emerge che il report presentato il 22 settembre 2022 dalla Fondazione Agnelli nega delle evidenze che stanno sotto gli occhi di tutti.
“L’Italia spende troppo e male per la scuola”. Dimostrare la veridicità di questa affermazione sembra essere, sostengono i due sindacalisti, il chiodo fisso della fondazione Agnelli che, grazie alle illimitate risorse di cui dispone, non perde occasione per entrare nel merito delle politiche scolastiche anche se la fondazione in questione è un ente privato che non ha nessun ruolo istituzionale preposto a tale compito.
Con un report pubblicato il 22 settembre, la Fondazione cerca di dare risposte a 4 domande che riguardano la spesa scolastica:
Domande che, secondo l’interpretazione dei dati da parte della Fondazione portano alla solita risposta che già ci si aspettava in partenza: L’Italia spende troppo e male per la scuola.
Ci sembra piuttosto che le conclusioni tratte dimostrino ancora una volta che spesso i dati statistici possono essere letti in maniera diversa a seconda della tesi che si vuole dimostrare.
Partiamo dalla prima domanda; secondo la fondazione Agnelli, la spesa per la scuola è rimasta stabile dal 2009 al 2019 per aumentare addirittura nel 2020. Peccato però, come risulta dal grafico del Report, che nel 2009 si spendeva per la scuola il 3,8% del PIL che si è gradualmente ridotto fino al 3,2% del 2019 il che corrisponde ad un taglio di circa 10 miliardi.
È vero che la percentuale del 2020 risulta essere aumentata fino al 3,5%, ma si omette di ricordare che il 2020 è stato caratterizzato da un crollo del PIL causa pandemia e che, come tutti sanno, una frazione aumenta di valore anche quando il suo denominatore diminuisce; quindi nella fattispecie non è che sia aumentata la spesa (numeratore) ma è diminuito sensibilmente il PIL (denominatore) facendo quindi aumentare il risultato della frazione (spesa in % per la scuola).
Riguardo la seconda domanda, secondo il report, l’Italia si trova perfettamente in linea con gli altri Paesi europei; affermazione ardua di fronte ad un istogramma che mostra come la media europea per le spese di istruzione e università sia pari al 4,9% del PIL mentre quella italiana si attesta al 4,3% (ultima rispetto ai Paesi presenti nella tabella del report) contro il 4,7% della Germania, il 5,2 della Polonia o il 5,9% della Finlandia.
Per cercare di rendere ancor più evidente la tesi della fondazione Agnelli, viene riportato il dato della spesa per ogni singolo studente tra i 6 e 15 anni che vede l’Italia tra i Paesi più “spendaccioni” con una spesa pro capite di 75.000 € ben superiore, ad esempio, ai 62.000€ della Spagna e alla media europea pari a 72.000€.
Peccato però che, come ben sanno tutti i docenti di fisica, per confrontare dei dati correttamente occorre che essi siano omogenei. In questo caso infatti, viene taciuto totalmente il fatto che in Italia ci sono quasi 200 mila docenti di sostegno a carico del ministero dell’Istruzione mentre in tutti gli altri Stati europei, la spesa per il sostegno ad alunni che necessitano di sostegno, è a carico del Ministero della salute. Scorporando questo dato insieme al numero di docenti religione che operano solo in alcune nazioni, i risultati sarebbero ben diversi.
Non è esplicito, ma è abbastanza intuibile che la vera formulazione della terza domanda avrebbe dovuto essere: perché i docenti non sono diminuiti seppur in presenza di un evidente calo demografico?
In una pagina del report viene infatti evidenziato che a fronte di un calo di studenti pari al 12,8% il numero di docenti non solo non è diminuito ma è addirittura aumentato portando il rapporto studenti/docenti ad un valore pari ad 8,6 mentre era 10,9 dieci anni fa.
Stranamente, (forse è sfuggito) la risposta viene data dallo stesso report in quanto nella slide successiva dove si afferma correttamente che nello stesso periodo di tempo sono aumentati sensibilmente i docenti di sostegno (sono quasi 200mila dati ISTAT) passati dal 13 al 21,5% del totale. Poiché, come tutti sanno, in Italia non esistono classi differenziate bensì vige il principio dell’inclusione, i docenti di sostegno lavorano in compresenza con i docenti curriculari contribuendo così a ridurre drasticamente il rapporto alunni/docenti.
La scelta effettuata dal Parlamento italiano riguardo all’inclusione è una scelta politica che molti altri paesi ci hanno invidiato nel passato; è una scelta che ha dei costi elevati che però non può essere usata come una clava per cercare di dimostrare che in Italia ci sono troppi docenti.
Per concludere con l’ultima domanda, non potendo in nessun modo negare che gli stipendi dei docenti italiano siano inferiori a quelle degli altri Paesi europei, il report si conclude con l’affermazione che però i nostri docenti lavorano di meno rispetto ai loro colleghi di altre Nazioni.
Anche questa è un’affermazione opinabile in quanto, in quanto anche qui i dati non sono omogenei. In Germania, ad esempio, le lezioni nella scuola secondaria si svolgono per unità orarie di 45 minuti (rapporto Eurydice) quindi vanno ”normalizzate” per un corretto confronto con le 18 ore previste per un pari docente italiano.
Oltre a questo, c’è anche da considerare una diversa organizzazione del lavoro che prevede in Italia un continuo controllo degli apprendimenti con una serie di verifiche che poi vanno corrette al di fuori del proprio orario di servizio.
A dimostrazione di questa difficoltà nel confrontare il tempo lavorativo dei docenti italiani, il report della fondazione Agnelli riporta un monte ore settimanale pari a 26 con una media europea di 33 ore, mentre, secondo l’Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani, guidato da Carlo Cottarelli, un docente italiano lavora in media 36 ore settimanali.
Il che è come dire che questa domanda non può in nessun modo avere una risposta certa in quanto, a seconda della ricerca citata, un docente italiano lavora contemporaneamente di più o di meno rispetto ad un suo collega europeo.
Si vede quindi che i dati statistici vanno sempre presi con le dovute cautele, continua la Gilda di Cuneo, senza pretendere che rappresentino la sacrosanta verità da usare mediaticamente a giustificazione di una tesi (forse?) precostituita.
C’ è solo da augurarsi che nella famigerata classifica annuale delle “migliori” scuole stilata annualmente dalla Fondazione Agnelli, la cui eco mediatica è pari a quella di un Grammy Award, questo aspetto sia ben ponderato da chi diffonde quei risultati rendendoli per quelli che sono e cioè una mera elaborazione di dati statistici su parametri scelti autonomamente dal gruppo di ricerca sovvenzionato da un ente privato che, con finalità ben precise, si è autonominato difensore della “qualità“ della scuola.
La verità è che, molto probabilmente, queste classifiche delle scuole “migliori” non danno alcun contributo costruttivo al miglioramento delle istituzioni scolastiche che necessiterebbero, piuttosto, di politiche più oculate e lungimiranti atte a migliorare il sistema dell’istruzione nel suo complesso.
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