Dopo le parole di Liliana Segre ha un sapore particolare, quest’anno, la Giornata della Memoria.
Il rimando alla “noia” a proposito del dovere, meglio, della responsabilità di fronte al male assoluto della Shoah, del dolore innocente, dell’orrore infinito, credo che continuerà sempre ad interrogare le persone di ogni tempo.
Ma il suo pessimismo sul rischio dell’oblio non è fuori luogo. Anzi, ci riguarda tutti, perché è attraverso questo filo della memoria che possiamo e potremo pensare, anche in futuro, di tenere a bada i peggiori istinti ideologici, quelli che hanno mostrato il peggio della nostra umanità nel corso del ‘900. E che rinascono purtroppo in ogni guerra anche oggi, soprattutto nelle “guerre totali” dei tempi moderni.
Perché la memoria non è solo un diritto, ma prima ancora un dovere che ci coinvolge tutti, sperando che la storia possa sempre insegnare a chi verrà dopo di noi che è solo con l’esercizio della memoria che possiamo porre un limite e liberarci dalle possibili perversioni della nostra umanità, quelle che hanno fatto dire ad un intero popolo “quelle non sono persone”. Che si sia trattato allora degli ebrei, o oggi di altre tradizioni storico-culturali-religiose, poco importa.
Perché si tratta di una perversione? Perché nega il principio di universalità della nostra umanità. Perché ogni persona, al di là di ogni differenza, come ripeterebbe anche oggi un tedesco come il grande Kant, è sempre fine e mai un mezzo. “Fratelli tutti”, per riprendere Papa Francesco.
Le differenze, dunque, non toccano mai la sostanza del nostro essere, e gli aspetti storico-culturali-religiosi non sono un limite, ma una ricchezza. E se uno volesse costruire un moderno muro, dovrebbe, per dirla con Calvino, pensare non solo a chi resta dentro, ma anzitutto a chi resta fuori.
Questa la grande forza della nostra tradizione culturale.
Per descrivere linguisticamente queste differenze in passato è stata utilizzato il termine “razza”. Tanto da ritrovarla, all’art.3, ancora nella nostra Costituzione del 1948: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Come possiamo notare, si parla ancora di “razza”, cosa che oggi invece non si usa più. E non si usa più per evitare ogni equivoco linguistico e concettuale.
Anzi, stupisce il fatto che non sia stato cancellato e sostituito con altri termini meno equivoci. Forse per la formulazione positiva della seconda parte dello stesso articolo 3: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
In sostanza, possiamo dire che, a scanso di equivoci, nell’art.3 è il concetto di uguaglianza ad essere il vero fondamento della nostra Repubblica.
Perché allora non correggere questo art.3? Già durante la Costituente (1946-47) l’Unione delle Comunità Israelitiche italiane aveva avanzato la “sommessa richiesta di sostituire la parola stirpe a quella di razza, lasciando a quest’ultima cani e cavalli”. Ma altri già allora ritennero invece giusto mantenere la parola per ricordare un fatto storico, a presidio di una memoria che deve rimanere sempre vigile.
Un modo di far entrare la storia nella nostra Carta fondamentale.
L’art.3 è diventato così nella storia repubblicana, possiamo dire, l’architrave della nostra “costituzione sociale”, perché ha indicato la via per migliorare le condizioni sociali e politiche del nostro Paese.
Se il termine “razza” era presente all’art.24 nello Statuto albertino, in vigore dal 1848 al 1947, l’utilizzo politico del termine è di responsabilità del fascismo, attraverso le leggi razziali (settembre 1938-luglio 1939). Leggi precedute dal documento “Il fascismo e il problema della razza” del 25 luglio 1938, da cui, in particolare, il “Manifesto della razza” apparso sulla rivista “La difesa della razza” il successivo 5 agosto.
Forse il riferimento alla “razza” all’art. 3 è una paradossale sentinella che costringe tutti a riflettere per evitare l’oblio.
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