Stefania Auci, l’autrice dei best seller I leoni di Sicilia e L’inverno dei leoni, ma anche saggista in La cattiva scuola, nonché insegnante di sostegno nella Palermo dei quartieri difficili, ha chiacchierato con noi di insegnamento e di insegnati in occasione della Giornata mondiale del docente 2022.
E non ha potuto fare a meno di sottolineare che tra le tante criticità della scuola vi è l’eccesso di burocrazia, di carte, di scartoffie, che snatura il mestiere stesso, per il quale è necessario convogliare le energie fisiche e mentali e il tempo a disposizione sul benessere dell’alunno.
“Condivido con molti colleghi questo tipo di amarezza – ha dichiarato la scrittrice insegnante ai microfoni della Tecnica della Scuola – cioè l’idea che ormai noi docenti siamo stati trasformati in burocrati, dentro un’idea di scuola in cui tutto deve essere documento, calendarizzato, rigorosamente indicato attraverso scadenze, moduli, documenti, carte”.
“Educare significa portare fuori, condurre, formare, istruire e instillare il piacere e la gioia del pensiero critico nella mente dei ragazzi. Dare loro la contezza delle proprie capacità senza modificarli, ma cercando di valorizzare ciascuno per il suo compito, per le proprie peculiarità. E invece io e i colleghi ci ritroviamo sommersi dalle carte: dobbiamo avere i numeri a posto, i voti a posto, il registro a posto…”
“Questo secondo me ha finito per snaturare la bellezza dell’insegnamento, ed è la cosa più triste”.
“No, assolutamente. Per me l’insegnamento rimane la mia prima, principale professione. Continuo con il mio incarico di docente specializzata. L’unica concessione che mi sono permessa è la riduzione del tempo scuola con un part time, però di fatto continuo a lavorare nel mio ambiente”.
“Non è che non la sento, per me scrivere è una quota importante della mia vita e costituisce una quota importante del mio benessere mentale. Però a mio avviso una cosa non esclude l’altra e soprattutto la scuola rappresenta il necessario legame con la realtà. Il mondo della scrittura tende a essere una bolla, a differenza di quanto invece accade con la scuola, dove tu hai un diretto contatto con la realtà e vedi anche i mutamenti sociali, i cambiamenti di sensibilità che si verificano”.
“Del resto non posso pensare sinceramente di immaginare di descrivere determinati contesti sociali se non ho davanti agli occhi, ben presente, quello che sperimento ogni giorno all’interno della scuola. La la scrittura si nutre degli stimoli, dell’interscambio con i ragazzi, anche delle situazioni di disagio sociale”.
“Io devo dire che dopo quell’intervista mi sono trovata ad avere a che fare con moltissime persone della mia età che mi dicevano grazie per aver raccontato quella scuola di cui nessuno parla, perché c’è molta idealizzazione della scuola passata, fatta di rigore, di severità, di tante materie proposte a compartimenti stagni. Questo secondo me è un passaggio da precisare: io sono d’accordo sul fatto che la scuola di venti anni fa sia stata una scuola sicuramente più formativa, con una quota di contenuti maggiori, con un sapere qualitativamente più complesso. Ma è altrettanto vero che coloro i quali dovevano somministrare questo sapere non avevano interazione con i ragazzi, era una scuola molto elitaria, in particolar modo il classico, figuriamoci”.
“Purtroppo nel mio caso si trattava di docenti molto carenti dal punto di vista umano. Dal punto di vista professionale, per carità, erano sicuramente preparatissimi”.
“Chiederei una persona che è comunque della scuola, che ne abbia una conoscenza piena, non che abbia in testa la scuola modello in cui tutto funziona alla perfezione, con un computer per ogni alunno, il tablet, l’aria condizionata. Ecco, vorrei che fosse qualcuno che ha fatto un bagno di realtà e che conoscesse le nostre scuole”.
“Quindi con la difficoltà, per esempio, per quanto riguarda noi del Sud, di dover fare lezione quando fuori ci sono 35 gradi, senza la possibilità di respirare liberamente; o di avere a disposizione una buona biblioteca scolastica che funzioni veramente”.
“È comprensibile, perché a forza di misurarsi con il dolore degli altri, con il disagio, con le difficoltà, ci sta che ci sia un momento in cui psicologicamente dici basta, sono arrivato. Anche tra i miei colleghi, molti hanno vissuto e hanno fatto l’esperienza del sostegno come una sorta di ripiego perché non riuscivano ad entrare; ma molti sono rimasti nonostante le difficoltà”.
“No, non c’è. Quest’alleanza è più unica che rara. Quando si verifica, si lavora, si lavora per il bene dei ragazzi, quando non si verifica succede davvero un disastro, soprattutto per il sostegno. Quello che mi sento di dire è che spesso i docenti di sostegno vengono lasciati a se stessi. Purtroppo, soprattutto gli insegnanti più anziani ci vedono come un elemento di disturbo. Questo non accade per gli insegnanti più giovani, perché invece conoscono e riconoscono il valore aggiunto di una persona che sta a metà strada tra la classe e gli insegnanti curricolari”.
“Sono tutte questioni legate al benessere mentale, non soltanto dell’insegnante di sostegno, ma di tutti i docenti e dei ragazzi. Sarebbe importante la presenza di un operatore psicologico all’interno della scuola”.
“Sì. Penso alla mia insegnante di lettere delle scuole medie. Lei gestiva una piccola biblioteca. Ma ricordo che, avendo capito che peraltro stavo affrontando un periodo un po’ complicato a livello familiare, lei aveva compreso la mia passione per la lettura e mi dava la possibilità di scegliere in totale libertà i testi che volevo leggere. E quando parlo di totale libertà parlo di potere scegliere qualunque libro senza limiti di età. E poi ricordo che lei amava tantissimo fare quello che oggi verrebbe definito laboratorio di scrittura, cioè di racconti. Dava la possibilità a noi ragazzi, una volta alla settimana, di operare o di fare delle descrizioni di un oggetto, di una persona, di una stanza, sperimentando i vari registri, dal comico al drammatico, proprio per imparare non soltanto a leggere ma anche a scrivere”.
“Tutto questo su di me ha avuto un effetto straordinario. Non solo perché mi ha fatto sviluppare questa grande passione e attenzione per i dettagli e per la scrittura; ma perché la mia prof è stata una di quelle docenti che, per quanto fosse severa, molto vecchio stampo, era comunque una persona che ci conosceva, ci osservava con cura, sapeva i problemi di ciascuno”.
“Peraltro la mia era una scuola media particolare, perché era all’interno di un istituto casa famiglia. Quindi a frequentare con noi c’erano anche ragazzi e ragazze con problemi economicamente molto pesanti. In questo contesto la mia insegnante cercava una relazione, cercava di creare la classe al di là di quelli che potevano essere i limiti economici e sociali. E questo per me è stato un insegnamento che ho ripescato e ritrovato nel momento in cui sono passato dall’altra parte della cattedra”.
“Intanto mi sento di augurare ai colleghi di ritrovare quella piccola scintilla, a volte veramente un lumicino, che ci porta ad essere in classe, a credere nel lavoro che facciamo, nell’essere da questa parte della catena, perché non tutto è perso. Mi piace ricordare una parabola del Vangelo in cui si parla appunto dei segni che vengono gettati. La parabola del buon seminatore. Una parte dei semi finisce sulla terra, una parte finisce sui sassi, un’altra parte finisce dov’è, dove non potrà attecchire nulla. Ma una parte darà i suoi frutti. Ecco, la scuola è questa. La nostra azione sui ragazzi è un po’ come questi semi. Ci saranno quelli che non attecchiscono lì per lì e poi ci saranno quelli che daranno frutto”.
“E se anche solo uno di questi desse frutto, penso che ne valga la pena. Penso che fortissimamente valga per noi la pena di dire ce l’ho fatta, ho fatto quello che ho potuto con quello che avevo in mano“.
“E poi veramente sarebbe utile che finalmente ci fosse un riconoscimento vero del nostro ruolo sociale, sincero, autentico, del fatto che gli insegnanti hanno in mano le chiavi del futuro. Devono restituirci quella dignità che purtroppo, in un modo o nell’altro, ci è stata tolta, a cominciare anche da una dignità di natura economica, perché le nostre retribuzioni sono veramente basse”.
“Quando mi dicono ma voi avete tre mesi di vacanze pagate, io vedo rosso di rabbia, perché nessuno parla di quello che tu ti porti a casa. Perché se pure c’è il collega che se ne frega, che lascia cadere la penna e non gli interessa più niente, ci sono i colleghi che invece si portano a casa il lavoro e non parlo dei compiti in classe da correggere. Parlo del tema che ti può capitare. Questo accade moltissimo per gli insegnanti di lettere o comunque per le materie umanistiche. Il tema in cui magari si rivela una situazione di violenza in famiglia o di un ragazzino che è vittima di bullismo e lì tu non puoi chiudere la porta e andartene. Queste cose ti rimangono dentro, soprattutto chi fa sostegno, sa di cosa sto parlando, sa che questi ragazzi te li porti dentro anche dopo che hanno smesso la scuola e quando li vedrai, saprai che cosa hai fatto, che tipo di lavoro hai fatto”.
“Ecco, vorrei che fosse riconosciuto il fatto che noi non siamo degli impiegati. Noi siamo delle persone che si mettono in gioco, che si mettono al servizio della classe, dei ragazzi, con i propri valori, la propria tranquillità, il proprio equilibrio. In questo senso io parlo di riconoscimento e di benessere psicologico”.
“E parlo anche di riconoscimento economico. Non sarà la carta del docente da 500€ ad aiutarci. Dateci una retribuzione che sia effettivamente all’altezza del ruolo che ricopriamo”.
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