I casi oramai non si contano, e le scuole sono oggi non più semplicemente centri di formazione ma, prima ancora, luoghi educativi e di ricerca del benessere anzitutto personale.
Noi presidi, docenti e tutto il personale, a dire il vero, non siamo stati preparati a questo cambio o aggiornamento di ruolo professionale. Ma ci stiamo adattando, sapendo che ci troviamo di fronte non, come si diceva un tempo, al “materiale umano”, ma con cuori da riscaldare, ragazzi da motivare, prima che studenti ai quali chiedere apprendimento argomentato e competente.
Del resto, è la conseguenza, in questo nostro tempo individualistico, del mito della auto-realizzazione come senso della vita. Unico senso della vita? La scuola, vista la crisi delle famiglie, è l’unico luogo, l’unica opportunità per sperimentare il valore ma anche il limite di quel mito.
Un corollario di non poco conto è l’aumento esponenziale, negli ultimi due anni, di situazioni di ansia e di panico, in particolare nelle ragazze.
Tutti cerchiamo di darci delle spiegazioni: al di là delle maschere un po’ troppo sicure di sé, in realtà le giovani generazioni sono fragili, a volte inserite in contesti nei quali le aspettative, personali e famigliari, sono alte, con cornici competitive che non lasciano scampo.
Le scuole, rispetto ad anni fa, cercano di fare la loro parte: presenza stabile di una consulenza psicologica, quotidiana disponibilità anche solo per una parola buona, positiva, di sostegno e vicinanza.
Ma non sempre coloro che hanno questi ruoli mostrano una adeguata sensibilità. Del resto, per diventare presidi e docenti non sono previsti, come ha chiesto a gran voce Umberto Galimberti, test attitudinali o particolari studi. Tutti imparano facendo, ma fondamentale resta la sensibilità personale. E non tutti hanno questa sensibilità.
Rispetto a molte situazioni, vista la latitanza in troppi casi di adeguati contesti famigliari ed in assenza di cornici sociali, ben presenti sino a pochi anni fa, oggi il lavoro del preside e dei docenti è davvero delicato, a volte anche duro. Perché non si può rimanere indifferenti e mascherarsi dietro ad un voto, ad un giudizio, ad una valutazione. Sapendo che la scuola ha un margine di manovra limitato e ben chiaro.
Non ho sottomano dati precisi, su queste situazioni. Siamo dunque costretti ad affidarci alle reciproche esperienze.
Ansia, panico, atti di autolesionismo, persino tentativi di suicidio.
Quante situazioni vediamo a proposito di ragazzi affetti da depressione, disturbo bipolare, rapporto conflittuale con i genitori o che soffrono il conflitto tra genitori. Per non parlare di quanti e quante abusano di fumo, droghe e alcol, senza che quasi nessuno se ne accorga.
Se vogliamo dare loro una mano dobbiamo, tutti assieme, sfatare il tabù di parlare di queste cose.
Parlarne anzitutto in famiglia, tra amici, a scuola, nei gruppi sociali. Parlarne è un fattore protettivo, perchè dice del reciproco riconoscimento, primo valore personale e sociale.
I ragazzi oggi, se li osserviamo oltre le maschere e le mode, sono più soli, separati, isolati, rispetto a pochi anni fa. Nel senso che la famiglia, la scuola, i gruppi sociali sono più decentrati. I social e le chat? Si tratta di relazioni mediate, non è la stessa cosa del parlarsi faccia a faccia.
Internet, l’esposizione alla violenza in tutte le salse, i tanti siti sulle emulazioni ci dicono il mondo che i nostri ragazzi vivono oggi.
Mentre cioè in passato si viveva molto al plurale, inseriti in contesti di gruppo, in un mondo che considerava le relazioni come importanti e qualificanti, oggi i nostri ragazzi sono invece ripiegati su se stessi, stuzzicati dalla tentazione di chiudersi e di bastare a se stessi. Ma nessuno può essere solo con se stesso.
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