Usano il computer non come un supporto per fare ricerche, approfondimenti e compiti, ma compulsivamente, fino a 16 ore consecutive: sono i cosiddetti Hikikomori, i ragazzi che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale cercando livelli diversi di isolamento. In Italia si stima siano 120 mila tra i 12 e i 26 anni, ma il dato potrebbe essere in difetto secondo Anna Maria Caresta, giornalista Rai, autrice del libro “Generazione hikikomori. Isolarsi dal mondo, fra web e manga”.
A differenza dei fautori dello smartphone, anche questo sempre più gettonato tra le fasce giovanili e portatore di dipendenza, non portano con sé lo strumento tecnologico: lo vivono esclusivamente nelle mura domestiche e questo li fa diventare dei giovani tendenti all’asocialità.
Questi giovani, scrive l’Ansa, sono spessissimo rinchiusi in casa, nelle loro stanze, trascurate e a volte nella sporcizia; nei casi più difficili non comunicano neppure con i genitori, con i quali hanno dei timidi rapporti solo per prendere i pasti da consumare. E a scuola mancano sistematicamente, tanto da perdere spesso senza nemmeno essere valutati perché superano abbondantemente il tetto del 25% delle assenze.
In Italia il loro numero è in crescita, tanto da posizionarsi al quarto posto al mondo, dopo Giappone, Corea sul Sud e Spagna.
La giornalista ne ha parlato nel corso del suo intervento al 75esimo congresso di pediatria a Bologna.
“In Giappone – ha detto Caresta – dove questo fenomeno ormai è conosciuto da 25-30 anni, e dove il numero degli Hikikomori è altissimo, sono dai 450 mila ai 700 mila secondo le stime ufficiali, ma secondo le associazioni addirittura un numero variabile da un milione a quattro milioni, ci sono ragazzi, che sono la fascia più importante, ma non solo: anche persone di 40-50 anni che hanno perso il lavoro”.
L’errore più grande è lasciare soli quelli che cadono nell’isolamento.
“Ci sono le associazioni, ma anche i centri che si occupano degli Hikikomori, a cominciare dal centro per la psicopatologia da web dell’ospedale Gemelli di Roma e a Torino, al Regina Margherita, c’è un reparto di neuro- psichiatria infantile che ha fatto una piccola scuola. All’interno dell’ospedale hanno adibito aule dove i ragazzi vanno e frequentano quel tanto che possono. È stato poi siglato nel 2018 tra il Miur e la regione Piemonte un protocollo di intesa per un piano didattico personalizzato”, ha concluso la giornalista Rai.
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