Grandi consensi (ma anche qualche critica) per il docente di una scuola primaria di Palermo che ha deciso di utilizzare una forma di valutazione “motivazionale”.
Di cosa si tratta?
In pratica per la valutazione in itinere il maestro non usa il voto (pratica peraltro esclusa dopo l’entrata in vigore della riforma del 2020) ma “giudizi”, che poi tali non sono, utili a sostenere l’impegno e i risultati di ciascun alunno.
Che è poi quello che avviene, o dovrebbe avvenire, con la “valutazione descrittiva” di cui parla il DM 172/2020.
Intervistato da Repubblica l’insegnante si schermisce: “Non faccio nulla di speciale. Ogni insegnante crea un rapporto di fiducia coi propri alunni, a modo suo. Io li motivo con delle frasi, perché senza una motivazione non si fa nulla nella vita”.
E fino a qui va tutto bene perché è evidente che il maestro sta cercando di applicare una valutazione che possa aiutare gli alunni a migliorare.
I dubbi ci vengono però dopo aver visto un esempio riportato dal quotidiano.
C’è la fotografia di un compito con una annotazione del tipo: “Sono contentissimo, ho visto che ti sei impegnato. Hai svolto tutti gli esercizi. Sono fiero di te”.
Intanto una doverosa promessa: anche se non condividiamo del tutto questa impostazione (e adesso ne spiegheremo le ragioni) ci pare che il tentativo dell’insegnante sia del tutto apprezzabile: sottolineare i progressi nell’impegno e nei risultati è sempre ottima cosa.
Siamo cento passi avanti rispetto a chi pensa che la valutazione debba servire solo a “selezionare” o al massimo a “registrare” gli esiti degli apprendimenti con un laconico: “bene”, “non ci siamo”, “sei troppo disordinato” o “c’è ancora qualche errore”.
Quello che non ci sembra del tutto condivisibile (ma forse bisognerebbe avere qualche dato in più) è l’approccio un po’ troppo “personalizzato”.
Ci pare che frasi del tipo “sono contentissimo… sono fiero di te” facciano passare un messaggio non del tutto corretto perché è come dire che i progressi servono anche a “gratificare” l’insegnante.
Il messaggio ci pare anche un po’ “pericoloso”, perché potrebbe generare dipendenza e spostare l’attenzione dal compito alla relazione.
Ora, bisogna essere onesti: è assolutamente legittimo che l’insegnante sia soddisfatto quando un alunno impara qualcosa o riesce finalmente a superare una difficoltà. E’ normale ed è una sensazione che ogni insegnante ha provato e prova.
Messa però nei termini in cui noi l’abbiamo letta, la cosa può ingenerare un meccanismo non del tutto corretto: l’alunno non si “dà da fare” per imparare ma per far contento l’insegnante.
E allora, forse, sarebbero molto meglio messaggi e commenti che possano sostenere processi di autovalutazione: “come vedi, con un po’ più di attenzione sei riuscito a colorare meglio; metti a confronto quest’ultimo testo con quello di due mesi fa: mi sembra che questo sia più ricco di quello precedente” e così via.
Ci sembra insomma che fare leva sulla autovalutazione dell’alunno sia sempre la carta vincente: è un aiuto all’apprendimento ma anche all’autostima e alla consapevolezza di sé.
Ma le nostre, ce ne rendiamo conto, sono osservazioni di chi “cerca il pelo nell’uovo”: la pratica didattica del maestro di Palermo è anni luce più avanti rispetto ai tanti (intellettuali, professoroni, politici & C.) che continuano ad essere convinti che un bel 5 non ha mai ucciso nessuno e che anzi ha persino stimolato qualche studente a fare di meglio.
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