Anna Maria Berenzi è la vincitrice del Premio Nazionale Insegnanti, in pratica la miglior insegnante italiana del 2016 tra gli 11mila profili selezionati e valutati dal Ministero dell’Istruzione. Docente di matematica in una sezione ospedaliera di Brescia, per ironia della sorte era una docente in sovrannumero nel suo istituto, quando ha cominciato a insegnare negli ospedali bresciani, tra i reparti di pediatria, neuropsichiatria e oncologia pediatrica.
«È stato del tutto inaspettato, io non ero nemmeno a conoscenza dell’esistenza del premio. Ci sono passato perché una ragazza di nome Alessia ha mandato la candidatura».
«Alessia, la ragazza che mi ha candidato al premio è una di loro, una delle tante che ha dovuto interrompere il suo percorso scolastico tra la terza e la quarta superiore. Per lei seguire le lezioni era il modo migliore per distrarsi dalle cure. Ora è matricola a biotecnologie».
«Sono ragazzi- spiega la docente a Linkiesta.it- che hanno ricevuto una diagnosi da tumore e vivono terapie che li devastano, sono almeno in parte consapevoli che rischiano di morire. L’insegnante deve trovare un equilibrio molto precario: da un lato, deve riprendere in mano un percorso, con i suoi obiettivi da raggiungere. Dall’altro, deve passare la sensazione che la scuola non sia un problema».
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La chiave di volta, secondo Berenzi, è sentire forte collaborazione tra scuola in ospedale e la scuola fuori, che quel che i ragazzi ammalati fanno in ospedale sia è in linea con quello che fanno i loro compagni fuori: «È molto difficile perché dall’altra parte non sanno la situazione e tendono a non interessarsene più di tanto. Però, se ingrana è fondamentale. Perché si riesce a far passare nella testa del ragazzo l’idea che sia possibile un percorso di vita e formazione nonostante il “fermo vita” dell’ospedale».
«Il rientro in classe è stato molto difficile, per Alessia, così come per molti altri come lei – racconta la docente premiata-: si sentiva ignorata dai professori e dai compagni, è stata costretta a cambiare istituto».
«Persino i genitori rischiano di fare questo errore – spiega -. Nel momento in cui un ragazzo con un tumore finisce il suo percorso di terapia, tutti vogliono vedere un problema risolto. In realtà non è così: gli effetti delle terapie vanno avanti. E rimangono problemi di concentrazione e memorizzazione».
Può sembrare un lavoro completamente diverso da quello di tutti gli altri docenti, ma secondo Berenzi non c’è molta differenza: «Avere a che fare con gli adolescenti, siano malati o meno, è ugualmente difficile, perché sono in contrapposizione con l’adulto a prescindere. In realtà, è una medaglia a due facce, perché tanto sono schietti e brutali, quando sono autentici e leali, quando trovi con loro un punto in comune».
«La scuola è un mondo: ci sono consigli di classe splendidi, e alcuni di fronte a cui rabbrividisco. C’è una scuola di Brescia in cui un ragazzo aveva bisogno di istruzione domiciliare: nessun insegnante si è reso disponibile e non hanno trovato nessuno disponibile nemmeno a livello di istituto»
In ospedale, le regole d’ingaggio non cambiano: «I ragazzi devono sentire che ci sei come persona e non solo come insegnante. Non gliene frega niente dei contenuti e delle competenze. Gli serve sapere che tu ci sei per la loro vita. Se si crea questo legame, c’è un aspettativa e un esserci in prima persona che in ospedale è faticosissimo. Ci sei quando è giù di morale, quando soffre, quando pensa di non farcela. Dico un’eresia: che imparino o non imparino le equazioni è importante, perché il percorso sia utile e autentico, ma è secondario».
«La scuola è un mondo: ci sono consigli di classe splendidi, e alcuni di fronte a cui rabbrividisco. – racconta Berenzi -. C’è una scuola di Brescia in cui un ragazzo aveva bisogno di istruzione domiciliare: nessun insegnante si è reso disponibile e non hanno trovato nessuno disponibile nemmeno a livello di istituto».
«Si trattano i ragazzi come categorie, quando invece bisognerebbe trattarli da persone, tendendo conto del contesto. Basti pensare che non esistono prove Invalsi ad hoc per i ragazzi usciti da un esperienza come quella dei reparti oncologici. Di solito la risposta è: noi abbiamo solo le prove ad hoc per i dislessici. La base su cui si regge la scuola è il bisogno che ciascuna persona che la frequenta ha di avere un educatore. Senza quella figura, malato o meno, nessun ragazzo ce la fa».
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