Abbiamo bisogno della creatività dei dislessici, perché invece li stigmatizziamo? È la domanda che si pongono due ricercatori dell’Università di Cambridge in una ricerca pubblicata a fine giugno su Frontiers in Psychology. I dati che emergono dallo studio, ripreso anche da La Repubblica, indicano che il dislessico viene “bollato” come un individuo che ha difficoltà nella lettura e nella comprensione del testo, omettendo che si tratta anche di persone particolarmente creative, con doti naturali sul fronte dell’esplorazione decisamente sopra la media.
Questo spiegherebbe perché gli individui dislessici svolgono in alto numero “professioni che richiedono abilità associate all’esplorazione di idee e concetti e alla previsione di tendenze a lungo termine, come le arti, l’architettura e l’imprenditoria”.
Poi, sono almeno due sono le caratteristiche in cui il dislessico eccelle: l‘esplorazione e l’innovazione, frutto non del caso ma di una “specializzazione” venutasi a determinare con l’evoluzione della specie umana.
Certamente, nella formazione della dislessia c’è una componente genetica ed ereditaria che incide in due casi su tre, ma secondo gli autori della ricerca (la ricercatrice in scienze cognitive Helen Taylor e il neuroscienziato Martin Vestergaard) l’errore è pensare che sia una conseguenza derivante da un “disturbo biologico dello sviluppo”.
Il problema è che gli insegnanti non guardano queste abilità degli alunni dislessici (quasi 400mila solo in Italia), ma alle indecisioni di comprensione e a tempi più lunghi per fornire le risposte ai quesiti posti. Il risultato è che il dislessico diventa portatore di disturbi specifici di apprendimento (in base alla Legge 170 del 2010) e viene “catalogato” in quel ruolo, rischiando in questo modo fortemente di non sviluppare a pieno le sue potenzialità.
La Repubblica si sofferma su una delle conclusioni degli autori dello studio: “Il fatto che siano più predisposti degli altri a cogliere il quadro d’insieme delle cose. Ad esempio i dislessici sono più veloci nel riconoscere le cosiddette figure impossibili, ovvero le figure che hanno senso a livello locale ma non se viste nel loro insieme, come i disegni di Maurits Cornelis Escher”, ha spiegato Taylor.
“Non solo: una mole di studi degli ultimi 40 anni indica che i dislessici sono anche più portati a individuare schemi ricorrenti, a integrare informazioni in modo creativo e a trovare soluzioni originali a un problema. Tutto questo suggerisce che la loro mente sia portata all’esplorazione”.
I due scienziati spiegano anche perché vi sono individui con dislessia: “Una parte – numericamente prevalente – di Homo sapiens ha sviluppato un cervello ottimale per lo sfruttamento del già acquisito, più veloce nell’automatizzare il processo della conoscenza, e che quindi oggi riesce meglio in attività automatiche come la lettura” ipotizza Taylor.
“Un’altra parte d’umanità ha avuto in dotazione un cervello più portato all’esplorazione e alla novità”: tutti coloro che oggi indichiamo come dislessici.
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