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Gli insegnanti? Fagocitati dal tempo, aspettano il riscatto: forse

Un tempo, quella degli insegnanti, era una categoria a sé stante. Che fosse colta non c’erano dubbi anche perchè sapeva leggere e scrivere e talvolta pure far di conto, tanto che i contadini chiamavano qualche suo adepto particolarmente in vista per misurare i terreni. E poi era una classe che sapeva rispondere a tutte le domande più importanti dell’esistenza, compreso il senso del vivere e del morire, con riferimento pure alla propaganda che essa faceva ai regimi dell’epoca quando richiedevano sacrifici da immolare sull’altare della Patria. E talvolta riusciva pure a frastornare la semplice gente d’inizio del secolo scorso allorchè dissertava sulla sfericità della terra e sui suoi volteggi intorno al sole. In quei frangenti il dogma sulla infallibilità della categoria dei maestri rischiava di infrangersi sulla evidenza della Natura e se non fosse stato per la necessità di farsi leggere qualche rara lettera che arrivava da fuori, i contadini che non sapevano né di scienza né di Keplero e Galileo avrebbe apertamente deriso quel suo singolo rappresentante: il maestro appunto.
La categoria degli insegnanti, fino a metà del secolo scorso, era dunque fra le poche più importanti di una comunità, di gran lunga più credibile della categoria dei preti che si sospettava avessero un proprio nascosto fine, amplificato dalla mancanza di una moglie, per le sere buie e fredde, e di sostentamenti quantomeno documentabili; ed era apprezzata perfino più degli avvocati, fomentatori di liti e di ricorsi e quindi inaffidabili per la loro stessa leguleia natura.
Anche nei confronti del medico il maestro ne usciva a testa alta, perchè se questo curava il corpo, quegli curava lo spirito e l’intelligenza. E poi, all’epoca cui ci riferiamo, per lo più le pezze al culo li portavano un po’ tutti e un po’ tutti per lo più si dovevano arrangiare per portare il pane a casa. Tranne i grandi proprietari di terreni e qualche nobilotto, tutte queste categorie di intellettuali vivevanano arrangiandosi a tirare la cinghia: chi più chi meno, ma con qualche provento in più della grande massa dei contadini, degli operai e dei lavoratori dello zolfo nelle miniere.
A distanza di oltre sessant’anni, e quindi ai giorni nostri, la categoria dei maestri ha preso assai rapidamente la china della caducità su tutti i fronti: culturale, di prestigio, di immagine, visibilità e pure di ruolo sulla sua stessa cattedra che fra l’altro in molte scuole va scomparendo, assimilandosi a un normalissimo banco sul medesimo piano di quello degli alunni: una cattedra popolana e egualitaria.
E non solo, ma nell’arco più stretto di appena un decennio, con l’inizio del nuovo millennio, ha smarrito anche il primato del sapere e il maestro si è accorto, socraticamente, di sapere di non sapere come si invia una Mail, un Sms, a parte il fatto che capisce poco di Iphone, Ipad, Wi-Fi, tablet ecc. e delle gioie, e dei dolori, di internet, delle nuove mode discografiche e di costume e perfino in politica è smarrito. Molto spesso sono i suoi allievi che gli raccontano le avventure del mondo, a lui che disprezza (almeno così dice) il Grande fratello e i Tronisti, il gossip e i culi al vento, ma che sono i nuovi mito dei ragazzi dopo il naufragio della nave omerica sulle rotte della Tv.
Si è abbarbicato egoisticamente sulle sue specializzazioni libresche e non riesce ad andare oltre, ad attualizzare la sua conoscenza settoriale e su di essa nidifica, aspettando che le teste d’uovo dei suoi alunni schiudono. Ha scordato perfino l’essenza del suo essere il commesso e il rappresentate della cultura del potere che lo paga, male, perché non ha più nulla da propagandargli; si è ingrigito sull’astiosa invidia contro chi possiede più di lui, barando magari; non capisce perchè la sua capillare conoscenza dei verbi transitivi e intransitivi non influisca di un solo etto sulla bilancia del salumiere che lo frega o del pescivendolo furbacchione; si domanda se sapere la data esatta della pace di Caltabellotta possa portagli benefici con l’ufficio delle imposte o col notaio che gli svendola le vecchie cambiali. Non naviga più sulla riverenza della comunità che ha invece tentato altre vette, altre scalate e perfino la scoperta d’oceani così vasti dove lui nemmeno osa arrischiare una bracciata, almeno per stare a galla. Solo quella cattedruzza, sullo stesso piano dei banchi dei suoi alunni, perché gli hanno tolto perfino la pedana, lo rassicura e gli consegna la forza necessaria per lamentarsi del mutamento dei tempi, o tempora o mores, e pure della esiguità del suo appannaggio.

Pasquale Almirante

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