Riceviamo e pubblichiamo considerazioni di Giovanni Cogliandro, Dirigente scolastico IC Mozart e IISS Von Neumann – Roma.
Il giorno 8 febbraio 2022 i lettori del Corriere della sera, nello spazio gestito da Gian Antonio Stella (qui il link) hanno potuto leggere la riproposizione di alcuni brani di un articolo scritto alcuni decenni addietro in cui si sostiene che gli insegnanti italiani mostrino un grado molto mediocre di professionalità e una scarsa attenzione a quello che in molti riteniamo essere il mestiere più bello al mondo.
Negli ultimi mesi questa tendenza ad attaccare verbalmente e concettualmente il mondo della scuola sembra una moda in crescita tra giornalisti e scrittori. Basti pensare al volume Il danno scolastico, del quale ho potuto apprezzare la lucidità e il corredo analitico di alcune diagnosi, anche se la parte terapeutica e la conseguente proposta politica dei due autori del volume sembra alquanto discutibile.
Lo sforzo analitico e di ricerca messo in campo nelle centinaia di pagine del summenzionato volume manca però nelle righe del fondatore di Tuttoscuola Alfredo Vinciguerra che viene menzionato da Stella in alcuni frammenti degli anni ’70 del secolo scorso nei quali «non fa sconti a maestri e professori cui lo Stato ha affidato la cosa più preziosa: l’educazione dei figli.» Spiace affermare che tali frammenti risultano al lettore sinceramente deludenti, basati su una strategia emozionale condita da un indeterminato risentimento che ha animato gli ultimi anni la retorica populista anti-casta, andando in questo caso a colpire una comunità di centinaia di migliaia di persone, quindi risultando in fin dei conti alquanto inadeguata, con accuse indirizzate a una così ampia platea di persone senza distinguere storie personali, che in questi due anni di pandemia tra tante difficoltà hanno profuso impegno e dedizione cercando, anche se magari prossimi alla pensione, di apprendere le nuove tecniche di comunicazione via internet, certo con alterni risultati, anche se posso affermare con forza che nelle due scuole che dirigo schiacciante è la maggioranza dei docenti che hanno mostrato disponibilità estrema spesso ben oltre l’orario di servizio.
La fluidità e la dilatazione degli orari lavorativi è peraltro ormai caratteristica diffusa per quasi tutti i lavoratori, ma nel caso del mondo della scuola si articola in tutto un complesso di relazioni da curare con le famiglie, un complesso di relazioni nella quale l’operato dei dirigenti scolastici si mostra fondamentale nell’affiancare i coordinatori di classe e tutti i docenti in situazioni a volte critiche, improvvisandoci di volta in volta psicologi, assistenti sociali, counselor, mentor, altre figure paterne o materne per studenti e a volte per famiglie e docenti.
Potrei quindi rispondere al testo di Stella in maniera icastica, affermando con forza che gli insegnanti (e i dirigenti scolastici) sono svegli, molto svegli, come hanno dimostrato in questi due anni di emergenza continua, lavorando ben oltre gli orari dell’impiego pubblico e privato.
Affermare come si legge che gli insegnanti italiani «leggono poco, o non leggono affatto; non si aggiornano; sono scarsamente attaccati al loro mestiere; non si rendono conto dell’importanza che la funzione docente è venuta assumendo in questi ultimi anni; palesano un grave ritardo culturale e informativo; hanno interessi intellettuali piuttosto modesti» è un esercizio che ricorda le diverse declinazioni del populismo, che sceglie oggi come ieri, una classe, un gruppo per accusare indistintamente una categoria di persone di un male sociale, con un agire – direbbe Habermas – nascostamente strategico nello smuovere le pulsioni più servili, sostituendo l’argomento e la proposta politica con l’identificazione di un avversario, un hostis che non è qualcuno con cui confrontarsi ma solo da attaccare. Se forse Vinciguerra poteva avere le sue ragioni per farlo cinque decenni fa (Stella nulla riferisce del contesto scolastico dell’epoca) oggi certamente con tutta l’ampiezza degli strumenti a disposizione degli insegnanti e l’impegno profuso da questi ultimi per qualificarsi e aggiornarsi, appare assolutamente risibile.
Per rispondere tuttavia in maniera più pacata e argomentata, raccogliendo costruttivamente la provocazione di Stella (e Vinciguerra) provo ad ampliare lo spettro delle argomentazioni attingendo alla tradizione filosofica. La scuola è stata sempre percepita come lo specchio della comunità che la generava. Questo valeva già per la prima scuola costituita di cui si abbia notizia, la confraternita dei pitagorici, il cui scopo era la concreta iniziazione dei giovani a un bios theoretikós inteso come stile di vita capace di elevarsi al di sopra del mero perseguimento dell’utile come ben rilavato da Platone e Aristotele.
Concordo con Stella e Vinciguerra nella loro conclusione, il riconoscimento del fatto che il tesoro più prezioso per la Repubblica Italiana, specialmente in tempi di pandemia e postpandemia, comunque di emergenza continua, Ausnahmezustand senza apparente conclusione, sia l’educazione dei nostri figli.
La scuola è comunità educativa, un’espressione che mi sembra più vera e più bella dell’attuale sintagma di tendenza “comunità educante”: educativa perché questo aggettivo rende meglio di qualunque participio presente la stabile coessenzialità dei due lemmi comunità ed educativa per la descrizione della scuola, realtà complessa ed essenziale della vita civile, realtà che senza di ciascuno di questi lemmi costitutivi semplicemente non sarebbe. L’educazione, a sua volta, come evidenziato da Schiller, Schelling e altri filosofi più volte ricordati anche da teologi come Von Balthasar, è educazione dei sensi e della sensibilità estetica oppure non è. Da qui la compartecipazione di polis e aisthesis che costituisce l’ambizione che mi accomuna a chi ritiene che la scuola sia esperienza di armonia e di bellezza, esperienza di educazione civile ed estetica, fruibile a diverse età della vita scolastica.
Il nesso stabilito tra estetica e politica nell’esperienza scolastica grazie ai nostri insegnanti viene declinato nella compenetrazione tra pubblico e privato che caratterizza la costruzione armonica di una città in una visione davvero inclusiva della scuola, non più aristocratico ginnasio o liceo ma declinazione repubblicana prima ancora che democratica delle prime esperienze di una comunità da parte di giovani uomini e donne che si stanno formando in quanto tali, un primo legame che va ad affiancare quello degli affetti e delle empatie familiari. Gli alunni quindi percepiscono il legame con i docenti come educazione alla cittadinanza ed educazione all’armonia se tale legame viene impostato e declinato sulle corde della bellezza e della fiducia prima ancora che su quelle dell’autorità, neutralizzando, se la pedagogia adottata lo consente, l’endemico e risalente paternalismo dell’istituzione scolastica a favore di un rapporto basato prima sull’empatia che sul timore e quindi su un rispetto basato sulla meraviglia e che non è rispetto di una gerarchia o di una funzione ma di un volto e di una persona.
Ritengo opportuno cercare strategie esemplari per ricostruire il filo interrotto del dialogo, ipotizzando un’educazione tra coetanei secondo una metodologia che da tempo sto cercando di sperimentare con i docenti interessati a una dinamica feconda tra le istanze solo apparentemente opposte ma in realtà misteriosamente correlate di affettività ed equità, una educazione effettiva e modulare, pensata e organizzata secondo i principi filosofici derivanti dall’esemplarismo come pedagogia sviluppata nel contesto dell’etica delle virtù. L’etica delle virtù rinasce in particolare grazie all’opera delle filosofe Anscombe, Murdoch, Zagzebsky, che a partire dagli anni ’50 (Anscombe) e fino ai giorni nostri anno sviluppato una connessione feconda tra le sfere della relazione, dell’emotività, della paideia. Un tale approccio concreto e proprio per questo filosofico, consente di creare un filo relazionale resistente ed emotivamente proficuo tra persone non distanti ma che, come ha scritto MacIntyre, si sentono originariamente dipendenti.
Gilles Deleuze, filosofo francese morto a metà degli anni novanta del secolo scorso, riteneva che la superficialità avesse la stessa rilevanza veritativa della profondità, criticando l’elogio della profondità fatto dai filosofi sin dai tempi antichi, in particolare da parte dei principali esponenti dello stoicismo. Ritengo che il dialogo tra i corpi inizi sin dallo scambio tra il corpo dell’infante e il calore del corpo materno, che lo accoglie nell’abbraccio sin dalla nascita, come succede anche con il corpo del padre poco dopo. Dallo scambio del calore procede il riconoscimento di sé stessi come accettati e amati, forse proprio quello che oggi è così difficile verbalizzare.
Credo sia questo il quadro in cui inserire la dinamica del dialogo oggi mancante tra adulti e giovani, tra docenti e studenti. Entrambe le parti del dialogo educativo ritengo possano aprirsi con maggiore fiducia all’altro, in particolare accettare i consigli della docente, una professionista che mi è sembrata molto equilibrata nelle sue esternazioni pedagogiche, senza ritenerla oppressiva ma forse come evocazione di una relazione più profonda.
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