Da neologismo a neologismo: stiamo passando dal “globalismo” al “glocalismo”?
Se noi analizziamo il dibattito in corso sugli effetti della globalizzazione, sulla compressione spazio-temporale, sulla liquefazione del tutto in infiniti frammenti, è facile convincersi della bontà di questi nuovi termini, entrati prepotentemente in uso nel linguaggio ordinario, e non solo specialistico.
Si tratta di due concetti che esprimono significati opposti ed alternativi. Se infatti il termine “globalismo” rimanda alla universalizzazione in atto di un mercato unico, di una società uniforme e tendenzialmente omogenea, di una sovra-esposizione del modello americano di sviluppo socio-economico, il concetto di “glocalismo” richiama invece l’imprescindibile rimando al radicamento “locale” dei rapporti e delle inter-dipendenze.
Cosa significa radicamento locale? Significa che noi siamo figli anche del nostro contesto, che le persone vivono anzitutto di relazioni, a partire, ovviamente, dalle dinamiche e dai vincoli famigliari, generazionali, sociali, lavorativi e territoriali. Non siamo cioè numeri, individui staccati gli uni dagli altri. Ma persone.
La globalizzazione, per qualche critico, indica l’aspetto più negativo di un neo-liberismo che basa la sua esistenza sul dominio dei rapporti sociali e sullo sfruttamento planetario. Una sorta di mega-macchina, di grande apparato tecnocentrico composto dai maggiori rappresentanti della finanza e dell’economia mondiali: G8, “il Club di Parigi”, la Banca mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, le multinazionali. Un apparato che sta imponendo alle nazioni povere scelte che distruggono la loro tradizionale microeconomia. Tanto da provocare, accanto ai nuovi flussi migratori, l’esplosione di una contro-economia, l’economia sommersa, come riserva esistenziale di fronte all’incalzare delle logiche di controllo planetario.
Il “glocalismo” sarebbe invece la risposta più adeguata ai rischi di questo nuovo dispotismo tecnocentrico, ai nuovi mercanti di schiavitù (per il basso costo della manodopera), ai nuovi signori del mercato e del libero commercio senza regole e vincoli etico-politici.
Ruolo della cultura e della scuola nella “società aperta”
L’idea di scuola e di cultura non è separabile da quella di esperienza. Un’esperienza, però, a tutto tondo: di vita, di pensiero, esistenziale, emozionale, affettiva, conoscitiva, di storia vissuta, di mille relazioni. La stessa che poi noi ritroviamo tradotta nei concetti di capacità e di competenza, cioè di un pensiero che si fa azione, lavoro (labor), cioè vita, di pensiero positivo, di coraggio della verità, nonostante anche noi stessi.
Non è nemmeno separabile da quella di “maestro”, perché quel “pensiero positivo” ciò che ci dispone a ben sperare nel futuro, attraverso relazioni significative che siano capaci, però, di un respiro di libertà, di ricerca, di apertura. Il nesso non etimologico ma concettuale di ratio e di relatio.
Proprio perché luogo della relazione col “magister”, un pensiero visto non solo nei suoi risultati, ma anzitutto nel suo modo di svolgersi, nel suo proporsi, pensarsi. Il che richiama il primato del “domandare” ragione, senso, significato. Tra persone ci si incontra non sulla base delle risposte, certezze, ideologie, convinzioni, ma su quelle domande che sono all’origine delle stesse risposte, certezze e convinzioni. E’ qui che la relazione a scuola si fa cultura, oltre tutti i nozionismi, oltre il mero possesso di poche o tante informazioni.
La scuola, dunque, è quel tempo-spazio nel quale le materie, le discipline, i percorsi di studio, le nozioni non sono viste in se stesse, ma attraverso quel domandare che le ha generate e che le dispone al loro auto-trascendimento, secondo la logica della ricerca, di un imparare che si autoalimenta col continuo esperire, e dunque relazionarsi.
Questo è fare cultura, dunque fare scuola. Simpliciter. Tempo-luogo, in sintesi, nel quale vale l’asserzione che i dubbi sono più sani delle certezze, sono cioè una “grazia”, per quel “domandare ragione”, senso, valore.
Cosa sono le discipline, le materie scolastiche? Sono finestre sul mondo. Sono diverse modalità di approccio ad un “mondo” che non si lascia mai oggettivare, catturare, de-finire, semantizzare. Sempre sospeso tra il suo e nostro essere ed il suo e nostro apparire.
Quando la scuola assume il suo compito? Quando crea in itinere ponti e strade e sentieri tra i desideri, convergenti anzitutto in quel domandare emozionale, dei ragazzi di oggi, e quelle esperienze, quei vissuti, quelle memorie, quei percorsi… che costituiscono quella “storia” che richiede non solo di essere conosciuta, ma, prima ancora, di essere riconosciuta, per diventare atto culturale, e non solamente atto nozionistico, dunque vuota conoscenza di un passato morto e sepolto. A scuola si impara, anzitutto, a rispettare il passato, ad amare il presente, ad innamorarsi del futuro.
Incontrare, dunque, i desideri, il pro-fondo dei ragazzi di oggi, per metterli in relazione ai con-testi. Secondo quel “metodo della libertà” che si fa responsabilità, cuore pulsante della nostra cultura occidentale, cioè di quel retroterra che rappresenta oggi la punta più avanzata della nostra civiltà umana.
Quale il punto archimedeo di questo retroterra? L’idea che la fonte del diritto siano le persone, in se stesse e nelle loro relazioni, non lo Stato, non il clan, il gruppo, un ceto, una classe sociale, le corporazioni, le tribù vecchie e nuove. Ma le persone.
Quando la scuola svolge il suo compito educativo e culturale lo fa in riferimento al principio di verità-realtà. Ma la verità-realtà non è soltanto un’opera, non è cioè solo un insieme di pensieri, ma il lavorio per pensarli e produrli e comunicarli e condividerli e ripensarli. Il vero “maestro”, dunque, sa che non contano solo i risultati, ma anzitutto le intenzioni ed i processi. Una vera co-operazione.
Di questi “maestri” abbiamo bisogno a scuola, di questi “maestri” vanno alla ricerca ogni giorno studenti, genitori, le espressioni della socialità. Come pure i presidi quando assegnano ai docenti le cattedre.
Di qualcuno, cioè, che non sia geloso di ciò a cui è giunto, ma che accetti di condividerlo, lasciando persino scorgere quel “domandare” che è all’origine della sua scelta di vita e di pensiero, prima che professionale. Non ci può essere dia-logo se non vi è comune domandare intorno ad un “logo”, ed un docente non è maestro se non è fatto di questa stoffa. Tutti chiediamo maestri che si lascino mettere in discussione. Un maestro che, in ragione di coerenza con la “sua” verità, come atto di fedeltà, quella che crede di aver scoperto, si lascia giudicare di nuovo da quella, attraverso gli altri, perché la verità è criterio di se stessa. Un maestro, dunque, che non proponga o risolva questioni o situazione o quesiti, ma si faccia egli stesso questione. Attraverso quel domandare, radice prima della cultura, ognuno, anzitutto è questione di se stesso e delle sue relazioni ed interdipendenze.
Riprendendo un classico contemporaneo: tutti ricordiamo il principio archimedeo “Datemi unpuntod’appoggio e vi solleverò il mondo”. Ma noi sappiamo anche altro, da persone di scuola, cioè il vero senso di questo principio: “Datemi un motivo per sollevare il mondo e vi troverò un punto d’appoggio”. E’ il cuore pulsante, al di là di concorsi, contratti, strutture, risorse, del valore educativo e culturale della scuola.
Perché la scuola è non solo importante, ma determinante, per la vita dei ragazzi e del nostro tessuto sociale ed istituzionale?
Perché la scuola è l’unico momento e luogo di sperimentazione e di costruzione del “sé”, personale e relazionale, non un “sé” quindi chiuso in se stesso, perché si fa capace di fondare e costruire socialità, equilibrio tra diversità, incontro di attitudini e talenti, disponibilità e solidarietà umana.
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