Leggendo il commento di Massimo Gramellini dedicato al caso della maestra ferita al volto con un coltello da un suo studente minorenne, ho consolidato l’idea che la nostra è una società allo sbando. E non mi riferisco al fatto in sé, cioè al deprecabile atto di teppismo compiuto da un ragazzino, ma proprio al commento di un giornalista colto e intelligente come Massimo Gramellini il quale, sapendo ben usare le armi della retorica non trova di meglio che santificare l’insegnante ferita: Santa prof, così si intitola la sua “tazzina di parole” sul Corriere. “Come definireste l’insegnante della provincia di Caserta capace di perdonare il ragazzo che le ha tagliato la faccia con un coltello, e di mormorare dispiaciuta «forse con lui abbiamo fallito»?”.
Non certo come una fanatica, non certo come una persona malata di “buonismo” suggerisce Gramellini, che conclude: “C’è una sola persona che può continuare ad amare incondizionatamente chi le ha fatto del male e manco lo capisce. Una madre. Negli abissi della scuola italiana nuotano tante di queste sante laiche, che considerano i nostri figli come figli loro. Non vedendole, ci riduciamo a dubitare che esistano. Fino a quando un episodio di cronaca ne fa venire una a galla”. Il caso vuole che il giorno prima la “tazzina di parole” gramelliniana fosse dedicata ad un’altra maestra, licenziata per manifesta ignoranza – come in certe barzellette, scriveva “squola” con la “q”. Conclusioni del nostro: “Qualcuno dirà che nel Paese in cui la ministra dell’Istruzione non ha un diploma di sc(q)uola superiore tutto è plausibile. Ma una maestra è più importante di una ministra.
Plasma il futuro dei bambini. Sempre che riesca a coniugarlo”. La contiguità temporale di Viva la squola e Santa prof rende palese quel che forse non avremmo colto: l’inopportunità di chiacchierare di scuola a ruota libera, sulla scorta di un frusto buon senso comune. La “santa prof”, ammesso che abbia pronunciato la frase che tutti i giornali hanno riportato, soffre di uno dei mali più pericolosi per un insegnante: la sopravvalutazione del proprio ruolo, il delirio di onnipotenza, l’idea che il contesto in cui si opera sia modificabile dalla propria volontà.
È la sindrome del professor Keating, il protagonista de L’attimo fuggente film che, non a caso, riscosse tanti consensi proprio tra gli insegnanti. Questo non vuol dire che l’insegnante non debba avere l’ambizione di incidere sui suoi studenti; vuol dire invece che un buon insegnante è anche un bravo diagnosta e sa che non ce la può fare in qualsiasi contesto ed in qualsiasi condizione. Ma troppi insegnanti non amano denunciare i limiti del loro ambito lavorativo, non amano sottolineare quanto il mondo esterno faccia pressione sui giovani studenti. Non arrivano a pensare che ci sia una differenza tra il cedere le armi e il denunciare la crisi educativa galoppante di cui essi stessi non sono né la causa né la cura; si rifiutano quindi di fare ciò che soltanto loro potrebbero fare, di dare cioè una descrizione attenta e professionale del problema, proponendo strategie per uscire dal vicolo cieco in cui è finita gran parte della scuola italiana. Se ne stanno lì, troppi insegnanti, a subire i colpi e i dardi dell’avversa fortuna e si rifiutano di fare un’analisi del sistema, temendo forse di dare una cattiva immagine di sé nel momento in cui dovessero denunciare i limiti materiali della loro professione. Difendono ottusamente se stessi e la propria scuola, che deve essere difesa ad ogni costo, stante il clima di stupida concorrenza tra istituzioni scolastiche, che è uno degli effetti collaterali dell’imperante “meritocrazia” e dell’autonomia scolastica. Per porre un qualche rimedio alla conclamata crisi educativa dei nostri tempi, cosa propone l’opinion maker Gramellini? Il “cuore di mamma”, la prof versione “santa laica” – ce ne sono tante che nuotano “negli abissi della scuola italiana”! Faccio notare che parecchie nuotano, altre galleggiano appena, altre ancora si avviano tristemente a sprofondare in quegli abissi perché non reggono la pressione di un lavoro stressante, perché hanno uno stipendio inadeguato che le obbliga a farsi carico, oltre che del loro compito di insegnanti, di tutto il lavoro domestico, perché hanno l’età per essere nonne ma devono ancora lavorare per dieci anni. Ma che tristezza essere ridotte a “sante laiche”!
Che tristezza essere relegate (con tutte le buone intenzioni del mondo, per carità!) in un ruolo che è quello del lavoro di cura alla persona. Anche il più umile maestro della più sperduta scuola dovrebbe aspirare ad essere, appunto, un maestro o almeno un buon insegnante. Sfortunato il Paese che non onora i propri maestri e che li riduce a santi, sfortunato anche perché dimostra di essere un Paese che ha bisogno di eroi. Nella sostanza, non è un Paese serio, se no rinuncerebbe a sbattere in prima pagina cattive e (troppo) buone maestre e comincerebbe davvero ad occuparsi del degrado della nostra società e della nostra scuola, che vanno, inesorabilmente, di pari passo.
Giovanna Lo Presti
Cecilia Sala, giornalista de Il Foglio e autrice del podcast Stories per Chora Media, è…
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