Finalmente l’alternanza scuola-lavoro entra nella scuola. Persino nei licei, tradizionalmente ritenuti inadatti a questo tema.
La legge 107/15, denominata “buona scuola” prevede, infatti, 400 ore, nell’arco del triennio delle superiori, per gli istituti tecnici e professionali, e 200 ore per i licei. Davvero tante, se pensiamo che sono per tutti gli studenti, mentre sino ad ora solo l’8% di loro ha seguito uno di questi progetti.
Un bell’impegno, che va a sommarsi agli altri già previsti, che dovrebbero, tutti assieme, cambiare, o iniziare a cambiare la modalità del nostro “far scuola” per venire incontro alle nuove domande formative dei giovani d’oggi, da un lato, e le esigenze, dall’altro, di un mondo del lavoro che richiede sempre più, oltre ad una buona preparazione di base che le scuole dovrebbero garantire, flessiblità, adattabilità, disponibilità a lavorare in gruppo, ad imparare cose nuove.
Tutti gli operatori della scuola sono preparati, o adatti a questo salto qualitativo’ Per questo sono indispensabili, da un lato, le rilevazioni Invalsi sugli apprendimenti degli studenti, e dall’altro le valutazioni sulla bontà o meno del servizio dei presidi, dei docenti, del personale tutto.
Bastano queste novità per ridisegnare la scuola oggi? Certo che no, ma inizia, si diceva, una nuova fase, che dovrà essere irrobustita con nuove riforme, per rendere tutte le scuole, quindi anche il personale chiamato a questo “servizio pubblico”, davvero al “servizio” delle nostre comunità sociali e territoriali. E’ finito cioè il tempo delle scuole come mondi chiusi, autoreferenti, vincolati, sindacalmente, solo alle vecchie logiche assistenzialistiche. Sono finiti questi tempi, giustamente.
Per favorire questo cambio di marcia, è però necessario mettersi d’accordo su un punto: dobbiamo farla finita con l’idea negativa, per la formazione dei nostri giovani, del lavoro, delle logiche di mercato, del sociale e del no profit, della “società aperta”, della libera circolazione delle persone e delle conoscenze. Anzi, è necessario sottolineare, in tutti i modi, che il lavoro, che sintetizza bene questi concetti, come esperienza di maturazione umana, è formativo, davvero formativo. Perché attraverso il lavoro noi ci realizziamo come persone. Non nel senso che la vita, ovviamente, sia solo lavoro, ma che col lavoro, inteso non solo come mestiere, cioè come neutro contratto di lavoro, noi ci realizziamo, ci riconosciamo, ci diamo un senso al trascorrere delle nostre giornate. Lo sa bene chi il lavoro lo perde.
Anzitutto, quindi, il suo valore positivo, concreto, e, di converso, l’idea che la cultura non è altra, cioè lontana, ma chiamata ad “incarnarsi” nella vita, la quale è anzitutto lavoro. Non solo lavoro, ma anzitutto.
Si diceva della legge sulla “buona scuola” che prevede molte ore da dedicare, a partire dalle classi terze delle superiori, a questo percorso formativo sul mondo del lavoro.
Le scuole superiori, proprio per queste ragioni, stanno studiando in queste settimane come fare, stanno facendo monitoraggio, sulla base dei documenti pubblicati dal ministero e dai vari mondi sociali.
Riusciranno, in particolare nelle classi quarte e quinte, a realizzare dei veri progetti di “scuola d’impresa”, cioè a far toccare con mano dai ragazzi di oggi i cambiamenti in corso? Riusciranno a far comprendere a loro e alle loro famiglie che sono le persone, con le loro motivazioni, che sono e saranno la prima risorsa che potrà consentire, al di là dei titoli di studio che agguanteranno con il diploma di maturità o con una laurea, di sperimentare e di scegliere il loro presente-futuro?
Vedendo i dati sulla disoccupazione giovanile, oltre il 40%, e la conferma del fenomeno dei Neet, cioè di coloro che hanno perso la speranza di formarsi e di cercarsi un lavoro, dovrebbero far riflettere un po’ tutti. Oltre le solite retoriche.
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