Quando, in occasione della Giornata della memoria, lo scrittore israeliano David Grossman ottenne a Firenze la laurea honoris causa della Facoltà di lettere e filosofia in Studi letterari e culturali internazionali, ”quale riconoscimento delle sue alte qualità artistiche e del suo illuminato impegno civile”, nella sua lectio magistralis si interrogava sul senso della Giornata internazionale della memoria che ricorre il 27 gennaio di ogni anno
In questa giornata si ricordano le stragi naziste nei campi di concentramento costruiti nelle terre conquistate dai tedeschi e dentro i quali oltre sei milioni di ebrei, ma anche zingari, omosessuali, oppositori, andicappati furono uccisi e poi bruciati per non lasciare traccia e per evitare accumuli di cadaveri.
Fu un eccidio senza precedenti nella storia dell’umanità che, dopo quel momento, dice Grossman, non fu più la stessa.
Ma la domanda che lui si pose, e che pose al suo uditorio, fu essenzialmente la seguente: “Ecco alcuni interrogativi che questa giornata internazionale della memoria risveglia: esiste oggi un dibattito sulla Shoah in quanto avvenimento dal significato universale e non esclusivamente ebraico? Tale dibattito è significativo e autentico oppure con l’andare degli anni si è trasformato in una sorta di obbligo formale, di tributo che il senso di colpa europeo si sente in dovere di pagare una volta all’anno agli ebrei e ai patimenti da loro subiti durante la Shoah? E noi rappresentanti di questa generazione, di tutti i popoli e le religioni comprendiamo l’incisività e l’attualità degli interrogativi che la Shoah ci prospetta e la rilevanza che hanno per noi ancora oggi soprattutto oggi?
Queste domande concernono peraltro anche il nostro rapporto con gli stranieri, i diversi, i deboli di ogni nazione del globo, concernono l’indifferenza che il mondo mostra di volta in volta verso episodi di massacro in Ruanda, in Congo, in Kosovo, in Cecenia, nel Darfur, concernono la malvagità e la crudeltà del genere umano che nel periodo della Shoah si profilarono come concreta possibilità di comportamento? in che modo trovano espressione nella nostra vita e quale influenza hanno sulla conformazione e sulla condotta del genere umano? In altre parole la memoria che serbiamo della Shoah può essere veramente una sorta di segnale e di avvertimento morale. E siamo noi in grado di trasformare i suoi insegnamenti in parte integrante della nostra vita?”
E poi continuò, dicendo: “Quanto più ci allontaniamo dall’epoca degli avvenimenti, quanto più il numero dei sopravvissuti diminuisce, tanto più cresce il timore che il dibattito sulla Shoah rimanga circoscritto a un ambito accademico e astratto, e perda gradualmente il legame con una dimensione umana, personale, privata. Apparentemente questo è un processo naturale. Coloro che ricordano si allontanano dalla sofferenza personale delle vittime a favore di una prospettiva storica più ampia, generale, teorica. In un certo senso è più facile e perfino comodo occuparsi di un evento storico traumatico con gli strumenti del pensiero astratto e del dibattito concettuale, piuttosto che esporsi di volta in volta alle atrocità all’insopportabile sofferenza del singolo, dell’individuo, dell’uomo, della donna e del bambino vittime di quel trauma.
Noi ebrei non abbiamo altra scelta che toccare direttamente con la mano la Shoah in quasi ogni circostanza o congiuntura significativa della nostra vita. La Shoah ha elaborato in noi schemi di pensiero e di condotta ravvisabili in quasi ogni ambito della nostra esistenza: dal modo in cui alleviamo ed educhiamo i figli a quello con cui lo Stato d’Israele affronta i problemi di sicurezza e di politica estera. Ma la Shoah è più che altro presente nel modo occulto, tragico con cui gli israeliani e gli ebrei percepiscono la loro esistenza in quanto popolo, la loro diversità, l’agghiacciante peculiarità del loro destino, la loro estraneità tra gli altri popoli, l’esperienza della loro esistenza che appare immancabilmente fragile, incerta, sempre in bilico, e sulla quale incombe l’ombra di una qualche minaccia. Mentre gli altri popoli possono con relativa facilità evitare di riflettere sulle conseguenze della Shoah e dunque sfuggire ad un dibattito profondo che le concerne, noi ebrei siamo condannati a dibatterne ripetutamente, a cadere talvolta nella trappola dell’angoscia esistenziale che la Shoah ha scavato in noi, a definire gli aspetti significativi della nostra vita nei termini categorici, estremi che la Shoah ha lasciato impresso in noi.
In un certo senso si può dire che il popolo ebraico e di fatto quasi ogni ebreo sia un colombo viaggiatore della Shoah, che lo voglia o no”.
E a Taormina, al Taobuk, ricordando quella prolusione, aggiunse: “La letteratura, la poesia, il teatro, la musica, il cinema, la pittura e la scultura sono i luoghi in cui l’individuo moderno può affrontare la Shoah e sperimentare le sensazioni e la particolare esperienza umana che la ricerca e il dibattito accademici solitamente non sono in grado di far rivivere”
Gli artisti allora hanno una responsabilità: “presentare le cose in modo immediato, non manipolativo, sentimentale, volgare o esaltato”, senza cadere nella trappola dei “cliché di parole e di sentimenti intesi, in verità, a proteggerci da quella insopportabile sofferenza”