Le immagini che ci giungono ogni giorno dall’Ucraina non ci possono lasciare indifferenti, non ci lasciano indifferenti.
Immagini di una guerra a noi vicina che richiamano gli anni novanta, cioè il conflitto intestino alla vecchia Jugoslavia. E che ci fanno capire, al tempo stesso, quanto sia terribile il dolore nelle tante guerre dimenticate di oggi. Qualcuno le ha contate, ed ha parlato di una trentina.
Vedendo queste immagini, dicevo, mi sono venuti alla mente due rimandi. Il primo riguarda una canzone di Fabrizio Moro, il cui testo lo ricordiamo: “Pensa, prima di sparare pensa”.
Il secondo un celebre testo di Hannah Arendt intitolato “la banalità del male” sul processo ad Eichmann, cioè su uno dei responsabili dello sterminio degli ebrei e sulla pretesa, da parte sua, di giustificarsi con un banale, appunto, “ma io ho solo eseguito degli ordini”.
Eh no, risponde la Arendt, ognuno di noi è anzitutto un essere umano, al di là dei ruoli che ricopriamo, ed ogni essere umano è, appunto, umano perché chiamato alla comune responsabilità di pensare e di capire un senso di quello che facciamo. Nessuno, cioè, si può giustificare o accampare scuse.
È una riflessione che chiede, cioè, di non limitarsi a subire i ruoli che siamo chiamati a ricoprire nella vita, ma a renderli compatibili, pensando comunque al bene di tutti, al comune destino di esseri umani. Perché allora nella storia e nel nostro vissuto continua a prevalere il male sul bene? Forse perché il male, cioè l’inclinazione al male, nasce anzitutto dentro di noi?
Come potrebbe aggiungere Simone Weil, sono queste tragedie che, in fondo, rivelano la nostra miseria umana. Nel senso che non sono gli eventi che ci costringono al male, ma sono gli stessi eventi che rivelano chi siamo in realtà. Cioè sospesi tra bene e male, ma in verità più inclini al male che al bene. A seguire i nostri istinti (“homo homini lupus”) più che la nostra coscienza. Una coscienza nostra ma anche di tutti, quindi in grado di aiutarci ad andare oltre gli istinti individuali ed oltre gli istinti di gruppo, che, se assolutizzati, diventano corporativi, nazionalistici, etnocentrici, se non addirittura razzisti.
Mentre, come ci hanno insegnato i classici ma anche le grandi tradizioni cristiane, umanistiche, illuministiche, democratiche, il nostro primo compito, per realizzare la “fraternità”, quindi una pace secondo giustizia, è quello di cercare prioritariamente ciò che unisce, e non ciò che divide.
L’affermazione di ogni io è sì il sentimento primario di ciascuno. Ma non possiamo limitarci a questo sentimento, che nell’età evolutiva chiamiamo egocentrismo, cioè il credere che il proprio ombelico sia il centro del mondo. La maturità, invece, è rendersi consapevoli che viviamo in simbiosi gli uni con gli altri.
Per cui la migliore educazione contro la guerra nasce riconoscendo gli uni per gli altri come parte di una stessa comunità umana. Forse la vera grande fatica di tutto il percorso educativo è conservare ed alimentare l’innocenza originaria, quella che vediamo nei bambini, i quali giocano assieme e si riconoscono nella reciprocità al di là di tutte le differenze. Prevenire l’istinto e l’attrattiva verso il negativo comincia dunque in famiglia, in classe, nelle mille relazioni.
Chiamato in una classe a riflettere assieme su questi momenti mi è scappata questa espressione: “non pensavo che avrei visto anche una guerra”.
Sapendo che esistono due guerre parallele oggi in Ucraina: quella sul campo, con le tragedie che sappiamo, e quella attraverso le immagini, compresi i tentativi di disinformazione.
Dopo la pandemia, nella quale abbiamo compreso che nessuno si salva da solo, ora anche questa tragedia ci sta dicendo che non siamo in salvo, non possiamo dirci del tutto protetti. Perché? Perché siamo tutti connessi, e non solo virtualmente. Dalla questione ambientale a quella economica e sociale a quella culturale e spirituale. La geopolitica, cioè, è solo l’interfaccia complessiva di tutte queste connessioni.
Anche culturale e spirituale? Certo, perché l’unica vera risposta a questo istinto in negativo è la conversione di se stessi e tra di noi, perché l’umanità di cui siamo impastati emerga oltre le ideologie separatiste, individualiste, nazionaliste. Di qualsiasi colore, di qualsiasi latitudine.
Poi, lo sappiamo, esiste anche il diritto di difendersi. Come sappiamo che non esiste la pace senza verità e giustizia. Per cui anche i buoni compromessi, mediati dal diritto, sono sempre i benvenuti. Perché al dunque le persone sono fini, e non meri strumenti o mezzi per scopi altri. Come non dimenticare le riflessioni di Giorgio La Pira sulle vere “attese della povera gente”?
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