Didattica

Hikikomori, quanto è diffuso nella scuola e a quali segnali prestare attenzione?

L’Hikikomori è un fenomeno che cresce anche nelle scuole italiane, sebbene non si abbia contezza precisa dei numeri, in quanto il fenomeno in sé ha dei contorni poco precisi, oggi, per gli stessi esperti che se ne occupano. A spiegarlo sono Gioacchino Cappelli (autore teatrale che ha portato sul palcoscenico il fenomeno, avendolo sperimentato sulla propria pelle) e Marco Catania (psicologo), durante la diretta della Tecnica della Scuola.

Chiariamo subito che sebbene sul web si parli di circa 100mila casi in Italia, sarebbero numeri non attendibili, e forse sottostimati, sostiene lo psicologo Catania, dato che abbiamo iniziato solo di recente a prestare attenzione a questo disagio.

Il termine – lo ricordiamo – nasce in Giappone, dallo psichiatra Tamaki Saito e fa riferimento ad una volontaria esclusione sociale che, a differenti livelli, si concretizza con abbandono scolastico, sociale e reclusione in casa o in stanza. 

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“Non c’è una visione univoca dell’Hikikomori – osserva ancora Marco Catania -. Peraltro i criteri diagnostici cambiano anche in base ai fattori culturali: il comportamento di ritiro è più socialmente accettato in Giappone di quanto non sia da noi, ecco perché i confini entro cui è possibile parlare di Hikikomori mutano in realtà culturali diverse”.

Inoltre – aggiunge lo psicologo – la diagnosi serve ai professionisti per relazionarsi e capire di cosa si parla ma la realtà dell’Hikikomori ci insegna che due ragazzi che si chiudono in casa, pur con lo stesso comportamento esteriore, possono avere ragioni molto diverse alla base del proprio disagio: un ragazzo potrebbe volere allontanarsi dalla pressione sociale, un altro potrebbe avere paura di essere giudicato dagli altri. E dunque – continua – di fronte a ragioni diverse, bisognerà agire in modo diverso”.

E ai docenti e ai genitori raccomanda semplicemente: attenzione ai segnali di sofferenza dei bambini e dei ragazzi.

A quale età si manifesta l’auto-esclusione sociale?

Sul fronte anagrafico, invece, interviene Gioacchino Cappelli, che avverte: “Già all’età di 8 o 9 anni oggi potrebbero comparire i primi segnali, perché i ragazzini sono molto esposti a questo rischio, in quanto hanno l’opportunità di isolarsi (ricorrendo ai social e alle tecnologie), alle volte proprio perché i genitori per primi mettono loro in mano un telefonino per essere lasciati tranquilli. Poi non ci si stupisca – afferma l’autore teatrale – che se un genitore taglia i contatti con i suoi figli, i suoi figli cerchino altrove qualcosa di interessante”.

Insomma, non è solo la cosiddetta Generazione Zeta (i nati dal 2009) ad essere esposta, ma anche la generazione precedente, nonché quella successiva, come testimonia il caso dello stesso Gioacchino. Una considerazione dalla quale gli insegnanti dovrebbero trarre la conclusione che in tutti i gradi di scuola si può essere soggetti a una certa tendenza all’auto-esclusione sociale.

Carla Virzì

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