La homeschooling, o per meglio dire l’istruzione parentale, si sta sempre più diffondendo nel nostro Paese.
I dati parlano chiaro: gli alunni delle scuole “familiari” erano poche migliaia fino a pochi anni fa, mentre adesso sfiorano le 20mila unità.
E’ probabile che la pandemia abbia influito parecchio sulla espansione del fenomeno perché – stando ai racconti che si leggono in rete – molto spesso le famiglie che scelgono la homeschooling sono anche famiglie no-vax.
Da un punto di vista strettamente normativo l’istruzione parentale è perfettamente legittima anche se l’alunno o l’alunna sono in età di obbligo scolastico.
La famiglia che intende occuparsi personalmente dell’istruzione del proprio figlio è tenuta a darne comunicazione all’inizio dell’anno scolastico alla scuola competente territorialmente; il dirigente scolastico ha il compito di accertarsi che la famiglia abbia la capacità economica e tecnica di provvedere; al termine dell’anno l’alunno si deve presentare presso la scuola statale per la prova d’esame corrispondente alla classe “frequentata”.
Ci sono alunni che compiono il loro percorso in famiglia ma il più delle volte la homeschool è una vera e propria classe che accoglie bambini e bambine di famiglie diverse.
La tipologia più frequente in assoluto è quella di piccolissime scuole allestite in sedi non urbane come per esempio cascinali ristrutturati che consentono di attivare la pratica didattica della “scuola nel bosco”.
L’Associazione Istruzione famigliare (LAIF) sostiene che questo modello educativo rappresenta “un rinnovato approccio educativo, aderente al nuovo scenario storico-culturale e antropologico, che ha radici lontane, ultima tappa del filo rosso che attraversa la storia, da Socrate, Platone, Montaigne, Rousseau, Illich a tanti altri”.
Questo approccio – spiegano ancora i fautori della homeschool – consente di creare le condizioni affinché i figli possano, attraverso variegate esperienze individuali e sociali, senza barriere spazio-temporali o di età, porre in essere le proprie creative potenzialità ed aspirazioni, coltivare interessi e passioni, valorizzare inclinazioni e talenti.
Per la verità le perplessità non mancano
Per esempio Mario Maviglia, già ispettore scolastico, provveditore agli studi a Brescia e pedagogista, sostiene che “la classe scolastica classica rappresenta una sorta di microcosmo sociale all’interno del quale i bambini possono sperimentare e vivere in modo consapevole le regole della convivenza civile. L’altro contesto è sicuramente la famiglia, ma nella cultura italiana la famiglia rappresenta il centro degli interessi degli individui, anche a scapito della comunità che richiede invece cooperazione”.
Inoltre – sottolinea ancora Maviglia – Il processo di insegnamento-apprendimento, oggi più di ieri, tende ad aiutare gli alunni a sistematizzare le conoscenze.
Conclude Maviglia: “E’ vero che i ragazzi possono acquisire una mole di dati, informazioni e conoscenze a prescindere dalla scuola: basta accendere un computer o utilizzare un telefonino; ma quando e dove hanno la possibilità di dare un senso a questa massa di dati? In teoria, i ragazzi potrebbero avere più nozioni dei loro docenti, ma la scuola offre loro la possibilità di collocarle in un orizzonte di senso, di dare loro un significato, di costruire quadri interpretativi per meglio capire il reale, altrimenti le nozioni rimangono appiccicate alla memoria, senza connessioni tra loro, come una insalata mentale mal amalgamata, come succede nei quiz televisivi. La scuola aiuta questo processo di sistematizzazione non solo attraverso l’intervento dell’insegnante, ma anche mediante la condivisione della vita scolastica con i compagni che consente di mettere a confronto opinioni, pensieri, idee e comportamenti diversi”.
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