Facevamo fatica a comprendere come i costosi banchi a rotelle che si vanno diffondendo nelle scuole fossero così indispensabili per contrastare il paventato diffondersi del virus. Infatti i tradizionali banchi stanziali, con relative sedie, sono in realtà piuttosto leggeri, e spostarli fino a raggiungere il distanziamento adeguato non costituisce un problema. Certo le ruote permettono un movimento più agevole e rapido, ma non ci sembrava che questo modesto vantaggio giustificasse la spesa davvero ingente che incombe oggi sui bilanci scolastici, cioè sul bilancio dello Stato, cioè – sotto forma di gabelle – sul bilancio dei cittadini.
Abbiamo cominciato a capire qualcosa di più sentendo celebrare questi particolari arredi da parte di dirigenti scolastici, docenti e studenti che sui media ne magnificavano le funzionalità. Solo che tali funzionalità non erano tanto da valutarsi in ordine al requisito del distanziamento, piuttosto alla presunta efficacia della didattica. Il banco a rotelle parrebbe insomma, piuttosto che un presidio para-sanitario, un sussidio utile a una didattica moderna e inclusiva.
Raccogliendo le indicazioni degli entusiasti, apprendiamo fra l’altro che il suo utilizzo consente di evitare la famigerata “lezione frontale”, e conseguentemente di rendere più informalmente cordiale la relazione docente – discente. Esso favorirebbe inoltre la didattica di gruppo e di conseguenza un maggiore “contatto” (sic) all’interno del rapporto didattico. Abbiamo anche sentito affermare che grazie a questa specie di gokart privo di motore il docente si collocherebbe non più “davanti” agli studenti ma “tra” gli studenti, dove quel “tra” indicherebbe non tanto una collocazione fisica ma di natura etica e relazionale. Ci scusiamo se abbiamo pensato che lo stesso risultato si otterrebbe anche, volendolo, con i banchi senza ruote semplicemente sollevandoli dal pavimento e spostandoli quel tanto che basta.
In ogni caso ci sono venute in mente alcune pagine di un libro famoso, da cui è stato tratto un film ancora più famoso: “Il maestro di Vigevano”.
La vicenda si svolge in una scuola elementare di Stato tra la fine dei ’50 e l’inizio dei ’60. L’autore, Lucio Mastronardi, conosceva bene l’ambiente che descriveva, essendo egli stesso insegnante in tale ordinamento.
Il protagonista, maestro Mombelli, è quotidianamente vessato dal “direttore, dottore, ispettore Prof. Pereghi”, il quale (già allora!) è fautore di una “scuola attiva, scuola viva” e detesta il “libresco”, termine spregiativo per indicare la scuola tradizionale, quella stessa che si incentra sull’esecrata, come si è visto più sopra, “lezione frontale”.
Ebbene il direttore, prima dell’inizio delle elezioni, provvede a verificare come siano disposti i banchi nelle aule della sua scuola. Gioisce quanto li vede suddivisi in gruppi, si estasia quando sono in semicerchio, ma quando si affaccia in un’aula dove sono banalmente disposti in file parallele di fronte alla cattedra, si allontana disgustato da tanto vecchiume. Mastronardi è insomma maestro nel canzonare chi acriticamente affida le proprie sorti di insegnante alle ricorrenti mode pedagogiche e didattiche, anche se nei fatti era tutt’altro che un conservatore ottuso.
La scuola italiana, oggi, è piena di “Prof. Pereghi”, collocati a tutti i livelli. Se ne trovano fra i docenti, i DS, i funzionari periferici e centrali del Ministero.
La stessa Dott.ssa Azzolina non appare immune da tale atteggiamento, vista la passione con la quale parla del marchingegno a ruote nelle sue frequenti esternazioni. Ma volentieri la perdoniamo, considerando il “mazzo quadrato” che si è fatta per laurearsi, diventare ministro e autoassumersi in qualità di preside. Il che le tornerà utile qualora, terminata la sua esperienza politica, intendesse cercarsi un lavoro.
Alfonso Indelicato
AESPI (Associazione Europea Scuola e Professionalità Insegnante)