Sarebbero, secondo l’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi in Medio Oriente, almeno 14mila i bambini tra morti e dispersi, un numero che in poco più di 4 mesi a Gaza è superiore al numero di bambini uccisi in 4 anni di guerra in tutto il mondo.
Per riportare l’attenzione sul dramma che vivono i bambini palestinesi, è stata allestita una mostra con una domanda principale: è possibile immaginare un futuro in mezzo alle macerie della guerra? Come possono gli occhi di un bambino elaborare l’orrore, la perdita, la morte e continuare a nutrire una speranza per un domani migliore? La risposta la si è trovata nella mostra: “Liberare l’immaginazione: Palestina 2023-2048”inaugurata nei giorni scorsi Bologna.
La mostra nasce dal lavoro di Jeremy Lester – per 30 anni professore in Inghilterra di Filosofia e Scienze Politiche – nel campo profughi Dheisheh alla periferia di Betlemme, tra dicembre 2023 e gennaio 2024.
La mostra è composta da due quadri per ciascun piccolo autore e autrice: il primo mira a rappresentare le vite e la loro condizione oggi, per il secondo disegno, invece, sono stati incoraggiati a rappresentare le loro speranze e sogni per una vita migliore nel futuro, per sé e per i propri figli: inevitabilmente tutte le rappresentazioni dell’oggi mostrano una rappresentazione molto negativa e drammatica”, mentre si fanno sempre più pressanti, chiariscono gli organizzatori, delle domande: “Come è possibile immaginare un futuro in mezzo alle macerie? Come possono gli occhi di un bambino elaborare l’orrore e continuare a nutrire una speranza per un domani migliore? Quale futuro attende i giovani?”
E così, in una delle immagini del presente, si vede un bambino in piedi di fianco a un gufo a simbolizzare le notti insonni, mentre nell’immagine del futuro lo stesso bimbo dorme tranquillo nel suo letto.
Poi ancora sangue, manette, catene, fili spinati nei disegni, mentre in quelli del futuro ci sono solo fiori, colori e creature alate finalmente libere di volare.
A collaborare nella organizzazione della mostra, come riferisce Il Fatto, un gruppo di 50 amici: “Diciamo spesso davanti a situazioni drammatiche che vorremmo fare qualcosa per dimostrare la nostra solidarietà, così abbiamo realizzato qualcosa che attribuisse concretezza alla nostra voglia di partecipare”.
“Abbiamo deciso di non legarci a nessuno: abbiamo rifiutato qualsiasi sigla, associazione o partito politico. Tutto è stato realizzato e finanziato direttamente da noi”. Così, grazie al contributo economico e professionale di 50 persone, “siamo anche riusciti a mettere da parte un discreto contributo che abbiamo intenzione di inviare ai bambini del campo profughi di Dheisheh che hanno disegnato le opere”.
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