A parlare in termini simili, ragionare e a porsi domande sul senso della scuola, è il sedicenne Leonardo Menon che, insieme a suo nonno Fiorenzo Alfieri, ha recentemente pubblicato “Strade parallele“, un libro che Il Sole 24 Ore recensisce e che noi riportiamo all’attenzione dei nostri lettori, visto l’importanza del suo contenuto.
Ed è il nonno, maestro elementare, poi direttore e assessore per molti anni a Torino, che racconta la scuola a suo nipote che la frequenta pieno di dubbi tutti i giorni.
Ne viene fuori un dialogo fitto e appassionato che non si limita alla denuncia, ma avanza proposte concrete sulla formazione degli insegnanti e la trasformazione degli ambienti di apprendimento.
In Italia abbiamo il corpo docente più anziano d’Europa. Oltre il 53% degli insegnanti hanno più di 50 anni e dunque, nei prossimi 10-15 anni, entreranno nelle nostre scuole più della metà di nuovi insegnanti. Se il nostro Paese provasse a prendersi davvero cura del proprio futuro, penso dovrebbe porsi con urgenza questa domanda: i 400mila nuovi insegnanti che lo Stato assumerà nei prossimi anni hanno una formazione e motivazione adeguata al compito che li aspetta?
Un compito di grande complessità, visto che la maggioranza degli studenti che escono dalle nostre scuole non considerano più lo studio un terreno propizio per la loro crescita e non credono che imparare serva alla loro vita. Per non rischiare la frattura definitiva tra una élite che possiede cultura e strumenti di interpretazione e una moltitudine lontana dalle conoscenze più elementari, è necessaria una mobilitazione di energie e nuove idee circa le modalità di formazione dei docenti, che riesca a giovarsi delle migliori competenze presenti nella scuola oggi, per valorizzarle, dargli respiro e farne il perno, con tirocini formativi sul campo della durata di più anni, perché questo enorme ricambio di insegnanti si realizzi in un orizzonte di straordinario impegno pubblico e di ripensamento generale della funzione della scuola nella società. Oltre alla dispersione scolastica, infatti, c’è un’altra dispersione più sottile e pervasiva: la dispersione dell’intelligenza dei ragazzi che non credono valga la pena studiare e scivolano inesorabilmente nel serbatoio degli oltre 2.200.000 giovani, tra i 15 e i 34 anni, che non studiano e non lavorano.
Che non lavorino è tema di difficile soluzione, ma che abbiano rinunciato a studiare è un problema che, a mio avviso, dovrebbe assillare tutti noi insegnanti, dalla scuola dell’infanzia all’Università. In quella rinuncia, infatti, dobbiamo riconoscere anche le nostre responsabilità, per ciò che non siamo riusciti ad accendere nei ragazzi.
«Quando parlo di passione intendo anche quella di insegnare, non solo quella verso la materia che si insegna – continua lo studente Leonardo Menon –. Secondo me una persona che intende intraprendere una carriera d’insegnamento deve farsi una domanda di questo tipo: “Ma ho davvero voglia di insegnare?”, “Ne sarei in grado?” … Qui entra in ballo il sistema di formazione e come si riconoscono dei potenziali insegnanti. Sicuramente non con dei concorsi che analizzano esclusivamente le conoscenze teoriche, peraltro assolutamente indispensabili … Penso che un valore prezioso per un bravo insegnante sia quello di essere in grado di immedesimarsi nei ragazzi a cui si rivolge … Suggerisco, prima ancora di prendersela con noi ragazzi, di farsi un esame di coscienza».
È importante ascoltare le parole di questo studente torinese, perché ci ricordano che alla radice dell’impressionante rinuncia allo studio che caratterizza il nostro Paese, non c’è solo la crisi economica, ma anche una scuola stanca, che fatica a rinnovarsi, in cui viene troppo poco valorizzato il lavoro dei docenti che si impegnano e sperimentano. Un esempio tra molti. Sono divenute legge le nuove indicazioni per il curricolo della scuola di base, che sono un testo innovativo che punta in alto, ma per la formazione quest’anno sono stati stanziati dal Ministero 4 euro per insegnante! Tutto questo in un Paese in cui l’85% degli italiani non sono laureati, e ci collochiamo al penultimo posto tra i paesi dell’Ocse.
Per ragionare su tutto ciò Fiorenzo Alfieri, da buon educatore, sceglie la strada più lunga mettendo in rotta di collisione due immagini. Da una parte la scuola raccontata dalla Mastrocola e altri autori come Starnone e Lodoli, dall’altra quella filmata da Vittorio De Seta, in quel capolavoro d’inchiesta sociologica che fu Diario di un maestro, andato in onda con successo nella televisione pubblica nel 1973, quando 15 milioni di italiani si emozionarono al racconto di un maestro elementare che, nella periferia romana, si scontrava con l’istituzione perché credeva nei ragazzi che la scuola dava per persi. È a partire da quella visione, attualissima ancora oggi, che Alfieri racconta un tipo di scuola impegnato, impegnativo, esigente e vitale, che ha caratterizzato le migliori esperienze di quegli anni e che ancora caratterizza tante scuole di base nel nostro Paese che, tra enormi difficoltà e irresponsabili tagli, continuano a cercare di offrire una educazione di qualità ai bambini. I problemi si aggravano con il crescere dell’età e, ragionando su un tipo di scuola capace di appassionare alla conoscenza, gli autori propongono un metodo e il paradigma del laboratorio scientifico, come esempio ed esperienza concreta in cui i ragazzi possano avvicinarsi e intendere argomenti come l’etologia.
Osservando come alcuni pesci difendono le loro uova in un acquario, apprendono «un modo di guardare che può essere applicato a infiniti altri casi». Fiorenzo Alfieri propone un modello a loop e racconta quanto un gruppo di futuri insegnanti, all’Università, si sia appassionato nel partecipare attivamente a un laboratorio in cui al centro c’era il farsi del pensiero.
Partendo da una presa di contatto con un fenomeno fisico come il galleggiamento, si è sviluppata una conversazione, che è «il migliore ambiente possibile per costruire conoscenza, hanno scoperto l’importanza del come se e sono passati agevolmente dal macro al micro: due atteggiamenti fondamentali nello studio delle scienze». Il problema è che, nello stupore di quegli studenti verso un metodo che li metteva in gioco in prima persona, c’era la drammatica constatazione di una carenza, perché ci sono ragazzi che attraversano tutti gli anni della scuola senza mai incontrare il dialogo e la discussione, come fondamenti del conoscere. E allora, se resteranno nella scuola a insegnare, come insegneranno?
Il libro si conclude a Siracusa, dove in tre serate il nonno propone al nipote la visione di una commedia e due tragedie greche. Ed è ragionando intorno a Le donne al Parlamento, Edipo re, ed Antigone che il dialogo si conclude con le parole di Sofocle: «Qualcuno crede di essere il solo a ragionare, di saper parlare e capire come nessuno. Ebbene, persone così, se le apri, sono vuote».Una bella provocazione non solo per gli insegnanti, questo libro, che invita a piantarla di pensare i ragazzi come tutti «sdraiati» e a assumerci, noi adulti, le nostre responsabilità.
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