Home Alunni I cellulari l’hanno fatta da padroni nei primi giorni di scuola

I cellulari l’hanno fatta da padroni nei primi giorni di scuola

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Tutti a commentare l’iniziativa del governo di vietarli del tutto sino alla terza media. Vietato anche qualsiasi uso scolastico, possibile in passato sotto controllo dei docenti. Consentito l’uso didattico invece da quest’anno solo alle superiori.

La novità, dunque, è stato il no secco, assoluto, quasi la scuola debba fare ciò che la famiglia non riesce più a fare, cioè imporre dei limiti, indicare delle regole, dire dei confini visibili.

Il consenso è stato quasi unanime. Salvo qualcuno che si è permesso di dire che “proibire l’uso del cellulare significa far vivere i nostri figli fuori dalla realtà”. Per ribadire che oggigiorno sono dei prolungamenti non solo fisici del loro (e nostro) corpo, per cui è impossibile farne senza. Con in più il vecchio adagio: non si educa con i soli no, ma aiutando a far riflettere, a prendere coscienza che la vita è continua mediazione, crescita, opportunità di scelta.

Lasciamo quindi al dialogo tra genitori e figli, anzitutto, il compito di dipanare la questione, sapendo comunque che alle superiori l’uso didattico resta consentito.

Mi piacerebbe, con l’occasione, invitare i genitori e i docenti a non concentrarsi solo sul negativo (“i cellulari sono una droga digitale”, come ha scritto qualcuno), ma a cogliere la complessità attuale per favorire lo spirito critico, costruttivo. Perché gli strumenti sono strumenti, ma non sono dei fini. Con sullo sfondo quell’umanesimo digitale che ci sta di continuo interrogando per offrire alle nuove generazioni sprazzi positivi di futuro.

Essendo nato alla fine degli anni cinquanta del novecento, quindi educato tra gli anni sessanta e settanta, mi sono trovato a crescere senza, guardando i ragazzi di oggi, cellulare, social, wifi, logiche di rete virtuale. Saremmo capaci oggi di farne senza? Parlo anche di noi adulti. Come fare senza dell’acqua calda, delle macchine, del benessere diffuso.

Sono cresciuto condividendo ogni giorno forme di socialità all’aperto, in una famiglia numerosa, senza preoccupazioni di vestiti, di protezioni, di un futuro possibile. Perché il futuro lo vedevamo già chiaro nei nostri genitori e nei ragazzi più avanti. Grandi speranze si coltivavano, soprattutto alle superiori e all’università, per i pochi che avevano la ventura di frequentarle. Ma anche con i propri compagni che a 14 anni sceglievano da subito il lavoro. O non lo sceglievano, ma lo consideravano una ovvietà. C’erano per tutti, comunque, diversi punti fermi, anche se quegli anni furono segnati da una improvvisa grande accelerazione sociale e mentale. Con aspetti positivi, e altri meno. Come sempre nella vita.

Aspetti positivi perché spalancarono la porta ad una fascia della vita che prima non era considerata. Parlo della giovinezza. Libera anche di sbagliare. Insomma, prima era vista solo in funzione della vita adulta, gli anni del ’68 invece dissero a tutti che quella stagione di età evolutiva valeva per se stessa, non in funzione del dopo. Grandi sogni, e grandi speranze. Un po’ alla volta sfumate, ma il futuro rimaneva per tutti un orizzonte possibile.

Oggi il futuro è invece un enigma. Non solo per le incertezze politiche, non solo perché sono i genitori e i nonni si tengono ben salde le redini socio-economiche, ma soprattutto perché non vi sono più evidenze etiche, culturali, valoriali.

Mi ricordo che da giovane credevo (e lo credo ancora) che la sostanza vale più dell’apparenza, che non si doveva vivere di like. Ma di ideali, di passioni. Con la speranza di fare della stessa passione il proprio mestiere.

Oggi quella realtà si trova proiettata su un orizzonte senza confini, dove non si capisce bene dove inizia e dove finisce il senso del limite, e il “metaverso” virtuale occupa lo spazio maggiore. Con una socialità non immediata, ma mediata da strumenti che, se non educati all’uso equilibrato, prendono anima e corpo della vita delle persone. Piccole e grandi.

Basta riprendere al mattino file di studenti alla stazione, tutti seduti in attesa dei mezzi e tutti assorbiti dai piccoli schermi. Un virus che oggi ha colpito un po’ tutti. Quando vado in pizzeria o al bar come non notare che quasi tutti, piccoli e grandi, stanno guardando il cellulare? Si sta cioè assieme ma ognuno per conto suo. Oppure, a casa, anche a tavola si preferisce guardare la televisione.

Considerando queste situazioni dovremmo tutti darci una mano per non lasciarci sopraffare da questi aggeggi. In poche parole, lasciarci educare educandoci al senso critico, costruttivo.

Mi piacerebbe dire a piccoli e grandi, ma anzitutto a genitori e docenti: non abbiate paura. Ogni epoca ha i suoi problemi, ma anche i suoi valori. Gli stessi che spingono a chiederci il senso del vivere, la qualità delle scelte che facciamo, il buono degli sguardi che incontriamo.

Ecco, l’educazione e la formazione culturale hanno questo compito. Perché tutti possiamo coltivare la speranza di un futuro possibile, cioè la domanda di sapore dell’essere e del vivere, non solo narcisistico, individuale, o di piccolo cabotaggio.

Con Roberto Vecchioni, per una vita docente liceale oltre che cantautore: “ricordarsi chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando. E di respirare quando la vita corre, quando si ha fretta, usando gli spazi attorno che sembrano diventati stretti. Respirare prima di parlare, perché le parole hanno un grande bisogno di aria pulita. E concedersi il lusso del silenzio. Il quale non è vuoto, ma è pieno di risposte”.

Perle di saggezza. Sapendo che il bello chiama bello, il buono chiama buono, il giusto chiama giusto.