Chiediamo al Prof. Francesco Pallante ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Torino: il 3 dicembre è stato pubblicato il pronunciamento della Corte Costituzionale sul giudizio di legittimità costituzionale della Legge sull’Autonomia differenziata. Quali sono, a suo parere, gli aspetti più rilevanti?
La legge Calderoli – così come, in precedenza, i pre-accordi Gentiloni del 2018 e le bozze d’intesa Conte del 2019 – aveva stabilito che la formula «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» consentisse alle regioni ordinarie (e persino a quelle speciali) d’impossessarsi di tutte e ventitré le materie in gioco, in tutte le loro cinquecento funzioni. Con, a complemento, le risorse finanziarie, strumentali e umane necessarie a esercitarle. In tal modo, tramite legislazione ordinaria si sarebbero interamente ridefiniti gli equilibri istituzionali tra gli enti territoriali. Sulla base del quadro ridefinito dalla sentenza della Corte costituzionale, ciascuna regione potrà invece domandare poche e circoscritte competenze solo qualora (1) non sia una regione a Statuto speciale e dimostri (2) di avere un’esigenza peculiare non affrontabile attraverso le ordinarie competenze (se l’esigenza è generale la soluzione deve anch’essa essere generale) e (3) di poter far fronte a quell’esigenza solo attraverso la particolare competenza richiesta. Alle ulteriori stringenti condizioni (4) che sia il Parlamento a decidere sull’attribuzione delle competenze alle regioni (con il potere di modificare l’intesa), (5) che, se una competenza coinvolge diritti costituzionali, siano prima definiti dal Parlamento i livelli essenziali delle prestazioni da garantire uniformemente sul territorio nazionale, (6) che l’ammontare delle risorse necessarie a esercitare le nuove competenze sia determinata in base ai costi standard (anziché alla spesa storica), (7) che l’assegnazione di tali risorse alla regione non ostacoli il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica e, infine, (8) che il loro impiego risulti economicamente efficiente.
Nel suo ultimo libro “Spezzare l’Italia” edito da Einaudi, illustra molto bene l’impatto sulla vita quotidiana degli effetti dell’Autonomia differenziata. Cosa succederebbe al sistema Istruzione?
Senza la sentenza della Corte costituzionale si sarebbe potuti giungere alla regionalizzazione del rapporto di lavoro degli insegnanti (dunque, la loro trasformazione in dipendenti regionali), così ottenendo un controllo regionale sull’attività d’insegnamento – sui concorsi, sulla formazione degli insegnanti, sui programmi scolastici – che il mantenimento del rapporto contrattuale in capo allo Stato attualmente esclude. Rilevanti sarebbero state, inoltre, le ricadute sul sistema complessivo della contrattazione collettiva, dal momento che decine di migliaia di dipendenti pubblici sarebbero risultate sottratte alla contrattazione nazionale, con indebolimento della forza negoziale dei sindacati. L’Emilia-Romagna avrebbe voluto creare un sistema d’istruzione e formazione professionale regionale parallelo e alternativo a quello statale, spingendosi a prefigurare percorsi di formazione terziaria non universitaria. Il Veneto e la Lombardia avrebbero voluto poteri d’intervento nell’organizzazione del sistema scolastico statale operante sul territorio della regione e, soprattutto, competenze in tema di parità scolastica e di assegnazione dei contributi alle scuole non pubbliche (al presumibile fine di spostare l’utenza dal sistema pubblico a quello privato). È importante sottolineare che la sentenza della Corte esclude invece le norme generali sull’istruzione dal novero delle materie su cui le regioni possono avanzare richieste di nuove competenze.
Inoltre, la Corte di Cassazione relativamente al referendum totalmente abrogativo sull’Autonomia differenziata ha ritenuto valido il raggiungimento delle oltre 500mila firme. Qual è il prossimo passo da compiere?
Dovranno adesso intervenire ancora la Corte di Cassazione, per valutare l’effetto sulla persistenza del quesito referendario della sentenza della Corte costituzionale, e poi di muovo la Corte costituzionale, per valutare l’ammissibilità della richiesta referendaria alla luce dell’art. 75 Cost. Poi – salvo un intervento del Parlamento sulla legge, che richiamerebbe in causa la Cassazione per valutare sotto questo nuovo profilo la persistenza del quesito – si aprirà la campagna elettorale per andare a votare tra il 15 aprile e il 15 giugno del 2025. A quel punto la sfida sarà portare alle urne almeno la metà più uno degli elettori, in modo da raggiungere il quorum previsto dall’art. 75 Cost. È una sfida difficile, ma non impossibile, considerato che una quota non irrilevante dell’astensionismo è politicamente motivata e tende a mobilitarsi quando sono in gioco questioni istituzionali non partitiche. È quanto certificano anche i sondaggi, che già registrano una percentuale superiore alla metà degli aventi diritto intenzionata a votare e un’ampia maggioranza, anche al Nord, contraria al regionalismo differenziato.
Carmen D’Anzi, Esecutivo Nazionale Cobas Scuola
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