La riforma che scaturisce dalla lettera dello Schema di decreto legislativo n. 383 costituisce un raro esempio di protervia, faziosità e volontà punitiva verso una specifica categoria professionale come raramente si era visto emergere tra i ranghi di un Governo di centrosinistra.
Il peccato originale della riforma in corso di approvazione risiede primariamente in due norme della legge 107: l’articolo 1 comma 181 lettera h, che introduce un lungo elenco di materie su cui il Governo è autorizzato ad intervenire con lo strumento del decreto legislativo, e l’articolo 1 comma 196, che dichiara inefficaci “le norme e le procedure contenute nei contratti collettivi, contrastanti con quanto previsto dalla presente legge”.
Risulta incomprensibile la ragione per la quale questioni tipicamente contrattuali (come ad esempio il trattamento economico e l’orario di servizio) non potessero essere riviste attraverso lo strumento delle concertazione, ovvero sulla base di un confronto con le parti sociali; e parimenti incomprensibile risulta la scelta di non procedere alla formulazione di interventi legislativi ordinari, che avrebbero aperto un doveroso e pienamente democratico dibattito parlamentare, anziché ricorrere alla legislazione delegata.
L’utilizzo dello strumento delle deleghe costituisce d’altra parte un modus operandi che rimanda alle riforme Gelmini e Moratti, cioè ai Governi di centrodestra presieduti da Silvio Berlusconi, le cui politiche in materia scolastica hanno destato enormi contrarietà nel settore, come pure nelle forze politiche che si richiamano ai valori del centrosinistra dalle quali, pertanto, ci si sarebbe aspettati un ben diverso contegno.
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Desta inoltre enorme sconcerto il carattere palesemente peggiorativo tanto del nuovo trattamento economico del personale delle scuole all’estero, quanto della rinnovata disciplina di quasi tutti i diritti allo stesso riconosciuti dalla normativa e dal CCNL attualmente in vigore.
Sulla pelle dei lavoratori delle scuole all’estero si contravviene dunque al più basilare principio di equità contrattuale e negoziale: ove vengano peggiorate le condizioni economiche, si dovrebbero far salvi i diritti acquisiti dai precedenti contratti, e viceversa.
I docenti all’estero, colpevoli di non si sa bene quale colpa, vengono invece penalizzati sotto entrambi i profili: fine dei trasferimenti a domanda, orario elevato da 18 a 24 ore (mentre il monte ore italiano resta a 18), fine della supervalutazione ai fini previdenziali e di carriera, abbreviazione del mandato da 9 a 6 anni, riduzione dei giorni di ferie, fine degli incarichi a supplenza, istituzione degli “elenchi” in sostituzione delle attuali graduatorie, arbitrarietà e nebulosità del nuovo sistema di reclutamento, marginalizzazione delle competenze del MIUR rispetto al MAECI.
Il tutto a pochi anni di distanza dai provvedimenti del governo Monti (2011), che avevano già ridotto il mandato da tre quinquenni non consecutivi a un unico novennio e avevano più che dimezzato l’organico complessivo del personale all’estero (che originariamente ammontava a oltre 1.400 unità).
Gli interventi in materia economica costituiscono infine, fuor di retorica, il vero core business della riforma: l’assegno di sede riconosciuto ai docenti all’estero è già parzialmente sottoposto a tassazione IRPEF (benché privo di natura retributiva!) dal 1° luglio 2015; a questo si aggiunge adesso, ai sensi dello Schema n. 383, un taglio del medesimo che può arrivare fin quasi al 30% (e non al 20%, come sbadatamente asserito nella Relazione illustrativa) in riferimento ai docenti delle scuole superiori e ai lettori.
Anziché statuire il principio, dettato dall’esperienza e dal buon senso, secondo cui i disagi del vivere all’estero non solo sono uguali per tutti gli operatori della Scuola (dai Dirigenti al personale ATA, fino agli insegnanti di qualunque grado), ma lo sono senza distinzione di comparto ministeriale tra personale MAECI e personale MIUR, si riproducono per contro le antiche iniquità, alle quali si aggiunge, per effetto del combinato della tassazione IRPEF con la imminente riduzione dell’assegno di sede, una riduzione del netto in busta derivante da quest’ultimo che non ha precedenti nella storia della Pubblica amministrazione italiana, ovvero pari a oltre il 40% rispetto al 1° giugno 2015.
Rispetto ad un usciere d’Ambasciata, non solo un docente di scuola superiore ma persino un Dirigente scolastico potrebbe dunque finire per guadagnare meno, e non di poco. Inoltre, la maggior parte delle sedi attualmente coperte dai docenti assegnati in territorio europeo diventerà talmente poco appetibile da restare vacante per cui, nel momento in cui la riforma sarà a regime, si registreranno dimissioni di massa nella maggior parte degli istituti scolastici collocati in quest’area.
Chi beneficerà della situazione che verrà così a crearsi? Semplice: tutti coloro che ambiscono a sostituire i docenti all’estero con personale selezionato con procedure più “agili” come quelle messe in campo dagli Enti gestori, nonché coloro che ritengono che il personale al momento in servizio vada sostituito con giovani neolaureati senza esperienza ma in possesso dei titoli di studio rilasciati dalle Università per Stranieri, in primis dall’Ateneo di Perugia, dal quale proveniva, guarda caso, in qualità di Rettore, il precedente Ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, che va infatti annoverata tra i massimi fautori degli interventi di riforma proposti.
In un contesto come quello appena descritto, sbandierare i “nuovi” posti di lavoro che si verrebbero a creare con la riforma suona davvero come un insulto all’intelligenza di chi conosce dall’interno il sistema della Scuola all’estero.
Lo si dica chiaramente: la privatizzazione è servita. Se proprio non è possibile stroncare sul nascere questo scempio, almeno si chiamino le cose col loro nome.
Si dica che gli insegnanti all’estero sono un bersaglio facile, in quanto pochi di numero e poco rilevanti in termini politici e sindacali, e che si preferisce colpire loro anziché il corpo diplomatico e amministrativo del MAECI, le cui buste paga sono senz’altro ben più pesanti. Si dica, infine, che lo scopo ultimo della riforma è quello di indebolire la presenza della Scuola pubblica all’estero, in quanto giudicata non più strategica per il Sistema Paese.
Nulla di nuovo sotto il sole, beninteso. Spiace solo che a farsi latori di queste istanze siano gli esponenti di quello che è stato per almeno un decennio il principale partito dell’area del centrosinistra italiano, ovvero coloro che meglio di altri dovrebbero capire il senso di parole come “cultura”, “istruzione”, “diritti”, “equità”, “concertazione”, “tutela del lavoro”.
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