Dal 1994 è stata istituita, dall’UNESCO, la “giornata mondiale degli insegnanti“, da celebrare il 5 ottobre mediante iniziative di vario tipo che abbiano ad oggetto la riflessione sul ruolo, sempre più complesso e difficile, degli insegnanti nella società globalizzata della comunicazione e dell’informazione.
In questa occasione, di solito, i media si limitano a riferire brevi frasi di circostanza estrapolate da comunicati e dichiarazioni di autorità internazionali e nazionali, ministri dell’istruzione, esperti nel campo dell’educazione oppure in tutti i campi del sapere e della conoscenza (i cosiddetti tuttologi, coloro che non perdono occasione per “esserci”, anche se il più delle volte si esprimono con autentiche banalità).
Molte belle parole, riconoscimenti, addirittura esaltazioni del nostro “insostituibile e indispensabile” ruolo, ecc.; dietro tutto ciò, ovviamente, si intuisce il vuoto oppure un’inguaribile demagogia (“Teniamoceli buoni, questi insegnanti, perché rappresentano una bella massa di suffragi elettorali, solo in Italia sono quasi un milione …”).
Anche all’interno della categoria, però, non si assiste ad una grande varietà di “pensamenti”: da parte di coloro (pochi, in verità) che intervengono sulle riviste specializzate o sui social media, non si va al di là di un elenco scontato (anche se verissimo) di lamentele intorno ai magri stipendi, agli impegni sempre più gravosi che ci vengono richiesti e/o imposti, alle minacce che quotidianamente subiamo da parte di bulli e bulletti e da parte di esagitati genitori (è chiaro che non tutti gli studenti sono bulli e non tutti i genitori sono dei violenti attaccabrighe, ma quelli che lo sono, ahinoi!, sono purtroppo in crescita), al misconoscimento o addirittura al disprezzo che la più vasta e articolata società esprime nei confronti del ruolo educativo e formativo che dovrebbero svolgere gli insegnanti.
Non viviamo sicuramente, come categoria professionale, una fase storica che possa essere definita soddisfacente o gratificante. Tuttavia, ciò non deve indurci a rinchiuderci nel nostro “particulare” né spingerci ad un eterno auto-compianto.
Dobbiamo essere consapevoli, a mio avviso, che:
1. La società italiana attraversa un processo di rapida trasformazione, contrassegnato da una crisi non solo economica, ma anche dei valori democratici e solidaristici cementati, con enormi fatiche, nel corso del secondo dopoguerra; una crisi accentuata dall’invecchiamento della popolazione e dal massiccio afflusso di immigrati (quelli regolari hanno ormai superato la cifra di 5 milioni), rappresentativi di diversi orizzonti, differenti visioni del mondo, culture e religioni. Immigrati che sono diventati indispensabili per il normale andamento della nostra economia e per le sue prospettive di sviluppo e di crescita, ma che da molti “indigeni” vengono percepiti come un pericolo per la loro sicurezza e per il loro benessere;
2. La famiglia cosiddetta “tradizionale” risente e riflette la crisi sociale più generale: sono in aumento le separazioni, diminuisce il numero delle nuove famiglie che si formano annualmente, aumentanp progressivamente le famiglie composte da un solo membro, così come il numero di coppie che decidono di non mettere al mondo figli, si innalza anche l’età media dell’uscita dei figli dalle famiglie di origine, aumentano i conflitti all’interno delle famiglie con conseguenze a volte tragiche;
3. Un fenomeno, macroscopico, che produce e accelera le trasformazioni sociali è rappresentato dalla smisurata diffusione delle nuove tecnologie, causa, a loro volta, di un evento ambivalente: con la connessione permanente si comunica sempre di più (è incredibile il numero di messaggi che una persona normale, soprattutto se giovane, riesce a trasmettere e a ricevere nel corso di una sola giornata), ma la quantità delle comunicazioni è inversamente proporzionale alla loro qualità e al loro valore, con la conseguenza che non si comunica, ma “si” chiacchiera: è il trionfo di ciò che il filosofo Heidegger, in “Essere e Tempo”, denominava “il piano del si impersonale”; l’io e il tu non comunicano più, sommersi da un continuo e persistente rumore di fondo.
Di fronte a tutto ciò è naturale il dilagare dell’insicurezza, dell’incertezza, della precarietà, della sensazione di pericolo imminente e incombente. E’ altrettanto naturale che la maggior parte delle persone sia alla ricerca di un argine, di un porto sicuro, di uno stabile e sicuro rifugio. Dove trovarlo, se non nella scuola?
La scuola: l’unica istituzione che, secondo le aspettative della maggioranza delle persone, è in grado di: a) tamponare le falle e le frantumazioni che si aprono nell’organismo sociale; b) svolgere non soltanto un’azione sussidiaria nei confronti della missione educativa affidata alla famiglia (art. 30 della Costituzione), ma addirittura di surrogarla; c) educare i giovani ad orientarsi nel “mare magnum” della rete, selezionando criticamente tra le informazioni che abbiano un valore conoscitivo e scientifico e la miriade di “bufale” e di colossali balle che pullulano nell’etere.
Se dalla scuola ci si aspetta quanto sopra descritto, non c’è dubbio che il ruolo degli insegnanti, nonostante il disprezzo sociale e le esigue o nulle gratificazioni salariali, viene, nell’immaginario collettivo, enormemente dilatato ed esteso ad ambiti sui quali, fino a non molto tempo fa, non era prevedibile, né richiesto, alcun intervento da parte degli operatori scolastici.
A dire il vero la nostra stessa Costituzione, pur salvaguardando il principio della libertà d’insegnamento (art. 33), afferma esplicitamente che “La scuola è aperta a tutti” (art. 34), il che non significa soltanto affermare il diritto di tutti (cittadini e non, minori e adulti) all’istruzione (anche quella lungo tutto il corso della vita), ma significa anche che la scuola “deve” aprirsi alla società esterna, a partire dal territorio circostante, ai suoi problemi, alle sue tendenze, alle sue pressanti richieste, alla necessità di accompagnare e gestire le trasformazioni salvaguardando i valori fondanti del nostro vivere civile: la libertà, la solidarietà, la democrazia, l’eguaglianza e le pari opportunità, ma anche la valorizzazione dei diversi talenti, delle competenze, delle diverse culture e tradizioni in una società sempre più globalizzata, interdipendente e interconnessa.
Ciò esige da ciascuno di noi, un grande sforzo di aggiornamento, di autoformazione, di riflessione e di fantasia, l’affinamento delle nostre capacità di concretizzare la nostra professione non soltanto nell’angusto spazio dell’aula, ma anche sul piano della progettazione, dell’organizzazione, delle relazioni con il più vasto mondo esterno alla scuola.
Apertura ma anche una grande sfida culturale e professionale, con responsabilità sempre maggiori per l’intera categoria.
Francesco Sirleto
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