“Mi si chiama professore, perfino dottore, ma da più di dieci anni meno pel naso i miei studenti a destra e a sinistra, per dritto e per traverso. Inoltre non possiedo nulla né denaro né potere né onori né lustro. Neanche un cane vorrebbe vivere come io vivo.” A sproloquiare così, poco prima di concludere il patto con Mefistofele, è il vecchio dottor Faust, nell’immaginario artistico del poeta tedesco Goethe che scrisse l’opera ai primi dell’800, ma nelle cui parole si possono forse riconoscere tanti docenti, sia sul mancato possesso di denaro e di lustro, e sia, ma forse soprattutto, in quel rimorso profondo di menare per il naso gli studenti che alla loro istruzione zoppicante e incompleta, come Faust dice, si affidano.
L’eccesso di sapienza genera talvolta la convinzione della sua incompiutezza e il rimorso di non poter trasmettere agli altri quel poco che si è capito, contrariamente alla presunzione di chi crede di tutto sapere, come il don Ferrante manzoniano che, possedendo qualche dozzina di libri, era sicuro dell’origine astrale della peste.
L’angosciante interrogativo di Faust serve però a mettere in luce la delicatezza della funzione docente e in modo particolare il dissidio che separa quanto a scuola viene fatto, o viene tentato di fare, e quanto invece vivono ogni giorno i ragazzi, sia casa e sia nel mondo esterno.
E serve pure a chiarire meglio il fine ultimo della cosiddetta “Emergenza educazione in Italia”, dove si dice, fra le altre cose, che è diventato normale pensare che tutto è uguale, che nulla in fondo ha valore se non i soldi, il potere e la posizione sociale, che sono proprio quei beni non posseduti da Faust, nonostante i suoi larghissimi studi e nonostante avesse indagato perfino la teologia e pure la negromanzia, e nonostante avesse la venerazione dei suoi studenti.
Perché allora il punto base dell’educazione dei giovani non sono le parole per spronare a fare meglio o la trasmissione di contenuti ma l’esempio, i comportamenti e in modo particolare quelli che vengono dai modelli cui i giovani si ispirano.
Se gli esempi veicolati da certi personaggi dello spettacolo sono quantomeno in controtendenza allo spirito dell’appello ma che per certi versi si possono pure giustificare, colpiscono invece le parole e gli atti di chi ha altre responsabilità, sia di governo, e sia di gestione di poteri visibili a tutti.
La rissa, l’ammiccamento alla trasgressione, la ricerca della raccomandazione per lavorare e per essere anche promossi fanno ormai parte del nostro costume, anche quello più banalmente vissuto.
Come fa parte ormai della assuefatta norma di non vergognarsi più, anzi il gloriarsi di avere amici potenti e potenti padrini: politici, mafiosi, malavitosi.
Soldi, potere, posizione sociale sono appannaggio per lo più di certe entità, come li chiamava Buscetta, che possono tutto dal momento in cui le regole e la legge sono invocate solo dal debole e dal soccombente, come il più fragilino della classe che cerca nel docente protezione e rassicurazione.
La intellighenzia del “68 sottoscriveva appelli affinché la cultura, per riscattarsi dalla arroganza dei potenti, dalla malavita, dallo sfruttamento, potesse arrivare a tutti gli strati sociali.
A distanza di oltre 50 anni altri manifesti dimostrano che la scolarizzazione di massa è servita poco per impedire il proliferare di nuove insidie che la scuola può contribuire a sconfiggere solo se chi si espone è saldo come roccia.
Faust salvò la sua anima dal diavolo mettendo a frutto per gli altri la sua vasta conoscenza: chi sarà oggi in grado di mettere a disposizione dei giovani, attraverso azioni e comportamenti visibili, la propria sapienza? E c’è una voce più alta di tanto scarso borbottio a farsi sentire, superando il deserto?
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