Fra i giovani del gruppo di età 15-24 il tasso di disoccupazione è superiore al 40%, mentre il tasso di occupazione è in crescita principalmente solo per gli over 50.
Le previsioni per il futuro di costoro sono dunque concordi nel predire carriere subottimali, salari stagnanti, difficoltà nello sviluppo di competenze, pensioni certamente molto meno generose di quelle concesse alle generazioni più fortunate.
Sembra dunque abbastanza evidente che politicamente i giovani non esistono, e non solo perché rappresentano solo il 15% della popolazione in età lavorativa, record quasi mondiale, ma perché il loro peso relativo nelle votazioni è addirittura più basso, potendo votare solo al compimento del diciottesimo anno di età. È la forza dei numeri: se il governo e la maggioranza di turno hanno bisogno di voti, è più facile che li ottengano dai cinquantenni, come l’esperienza degli ultimi decenni è lì a dimostrare in maniera inconfutabile.
È perciò scontato che la discussione dell’anno prossimo, come nel corrente, verterà ancora su come alleggerire l’età di pensionamento, in attesa di risorse mancati allo scopo, nonostante il tasso di occupazione dei giovani italiani sia tra i più bassi al mondo, il loro reddito relativo sia crollato in venti anni, così come la povertà relativa sia ora per loro più alta di quella dei nonni.
Sembra allora che le preoccupazioni delle istituzioni pubbliche nei loro confronti siano carenti sin dal tempo della scuola. Se i dati confermano che i giovani 2.0 sono più preparati dei loro nonni e genitori, all’atto pratico è come se non lo fossero, mentre se la fortuna avesse scelto per loro un Paese più moderno, più efficiente, meno chiacchierone, l’avvenire per loro sarebbe stato differente. Sono anni che tutti coloro con un minimo di senno riconoscono l’impotenza delle nostre scuole, sotto-finanziate e inefficienti. A ogni riforma, una promessa di una nuova era dorata, senza che poi la volontà principale sia quella di valutare seriamente i frutti dell’azione di riforma intrapresa. Gli effetti annunci sono i soli che sembrano preoccupare classe politica, stampa, addetti ai lavori. La cultura della valutazione attenta delle politiche economiche è continuamente calpestata dall’interesse di breve periodo nel mostrarsi attivo, nel dare l’idea di un movimento nella stasi, in una girandola infinita di annunci e di promesse di un futuro radioso.
Dato il basso livello d’investimenti in istruzione e la cronica disfunzionalità del nostro mercato del lavoro, non vi è dunque da meravigliarsi, se più del 20% dei giovani ha una qualifica superiore a quella richiesta dal mercato del lavoro, spesso con salari non dignitosi. Ancora più distruttivo è il dato che vede più del 20% dei giovani né studiare né lavorare, dato che ci pone fra Paesi come Messico e Turchia, non certo Germania o Danimarca!
Se il governo, con stampa e alcuni economisti al seguito, non passasse il suo tempo, così come accade, a discutere sul sesso degli angeli, forse l’altissima disoccupazione, che è una minaccia per intere nuove generazioni di giovani, si potrebbe frenare, come suggerisce la scienza e i dati economici. (da Linkiesta)
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