Ci sono delle parole che, solo a pronunciarle, sembrano dire tutto del loro significato. Sembrano, perché poi, se cerchiamo di non fermarci alle prime opinioni, si capisce subito che le definizioni cambiano a seconda di chi le usa.
La loro forza evocativa, dunque, non sta nel significato, ma solo nell’idea di significato.
Questo è quello che sta succedendo oggi per il termine “populismo”, tanto da alimentare lo scontro politico, costringendo vecchi partiti a reinventarsi, oppure portando al successo nuovi movimenti, centrati tutti su una cesura del passato e su una feroce critica delle elites che hanno padroneggiato, compresi quegli enti intermedi che hanno fatto da filtro e quindi da mediazione tra le parole d’ordine e la scorza dura della realtà.
Il risultato dell’attacco a testa bassa nei confronti di queste elites (politiche, economico-finanziarie, sindacali, dei soliti opinion-leader, dei grandi giornali e TV) si è convertito nel sogno, più virtuale che reale, di una “democrazia diretta” che spazzi via ogni compromesso, lasciando l’ultima parola direttamente al “popolo”, in particolare, per i “sovranisti”, al sottofondo nazionalistico di un popolo, immaginando come nuovi nemici, come capri espiatori, coloro che, in modo generico, sono identificati come i colpevoli della grave crisi che ancora oggi sta segnando il nostro Paese, e non solo: la globalizzazione, gli immigrati, la casta politica, l’Europa, il ruolo delle tecnologie.
A smontare questa visione, più immaginifica che reale, è ora Tito Boeri, noto studioso del mondo del lavoro, attuale presidente dell’Inps. Lo fa in un libretto, dal titolo “Populismo e stato sociale”, da poco edito da Laterza.
È un libretto di poche pagine (43), che riprende una lectio magistralis tenuta a Torino il 29 marzo scorso.
Il populismo, in prima battuta, si afferma come reazione alle sfide della globalizzazione, con l’illusione che le persone più in difficoltà possono trovare risposta alle loro esigenze solo chiudendo e proteggendo diritti, o presunti tali, prerogative, quindi le frontiere.
È un no netto all’idea di “società aperta”, quella che sta guidando i nostri ragazzi in gamba verso lidi anche lontani, si spera per pochi anni, per buoni contratti di lavoro. È un no, dunque, alla libera circolazione, in particolare europea, delle persone, dunque delle idee, prima che delle merci.
La posizione di Boeri è chiara: i populisti danno risposte sbagliate a problemi veri, seri, problemi che, perciò, vanno presi in considerazione, per una vera spinta ad una speranza comune che sembra oggi invece svanita.
Le risposte vere non possono, però, non passare attraverso un ripensamento dello “stato sociale”, in un contesto non più nazionale o locale, ma europeo.
Cosa propongono i populisti, in sintesi? Ricette che valgono per l’immediato, come si è visto, precisa Boeri, in America Latina, ma che alla lunga si rivelano controproducenti, se non catastrofiche. Anche la crisi oggi dell’idea di Brexit in Inghilterra dovrebbe far riflettere.
Servono i muri, le barriere, il mito “prima gli americani”, “prima gli italiani”? A ben pensare, si capisce subito che, una volta applicato, questo principio si rivela un boomerang. Per tutti. Non si possono cioè puntare e guardare ai risultati immediati, ignorando le conseguenze di lungo periodo. Chi ha il coraggio oggi di partire dai meri dati demografici, analizzando le proiezioni per i prossimi 5, 10, 20, 50 anni? Perché sarà la demografia che detterà l’agenda politica.
Il populismo, cioè, “ha un carattere autodistruttivo”. Per cui avremo leader che nascono, politicamente, e dopo poco saranno già solo un ricordo. In altri termini, anche i rottamatori, di vario colore, saranno rottamati.
Oggi i movimenti populisti sono al potere in sette Paesi (Finlandia, Grecia, Lituania, Norvegia, Slovacchia, Svizzera, Ungheria), e sono primo partito in cinque Paesi, tra cui l’Italia. Quindi, conclude Boeri, “al potere lo sono già”, perché condizionano anche l’agenda politica degli altri partiti.
Il core business è la domanda di protezione sociale, in particolare del vecchio “ceto medio”, quello che ha maggiormente sofferto per gli effetti della globalizzazione e per l’invadenza delle nuove tecnologie.
Chi, di questo cosiddetto “ceto medio”, ha sofferto di più? Chi, rispetto alle economie avanzate, aveva ed ha un profilo formativo poco qualificato, tanto da temere, nel caso di una valutazione delle effettive capacità e competenze, di rimanere per strada.
In altri termini, la formazione come discrimine fondamentale per determinare il confine tra uguaglianza e diseguaglianze.
La “casta”, dunque, viene individuata come struttura corrotta che sta a monte di quel confine, dunque del rischio della povertà. Come direbbe Beck, ecco la nuova “società del rischio”.
E qui si annida il paradosso, centrato sul presidente Trump, noto per un certo modo di fare business. Diventato addirittura presidente della più grande potenza mondiale.
Ma c’è un altro paradosso: se c’è un punto per il quale l’Europa non ha tolto sovranità agli Stati membri è stato proprio sulle politiche sociali. Perché non esiste un’Europa sociale. Magari esistesse! Basta dare un’occhiata ai dati sulla disoccupazione e alle forme di protezione sociale, politiche giovanili, sulla famiglia, ecc..
A questo punto, l’immigrazione è diventata il vero e comodo capro espiatorio. Dimentichi tutti di come sono stati, a suo tempo, trattati, con mille ingiustizie, i nostri migranti. Ma chi è che studia più la storia?
Cosa dicono invece i dati, in Italia? Che i migranti versano ogni anno otto miliardi di contributi sociali e ne ricevono solo tre per pensioni e prestazioni sociali. Cinque miliardi regalati che valgono un punto di Pil.
Se poi diamo un’occhiata ai dati demografici, con gli italiani che fanno sempre meno figli, facile intuire come tutta la questione debba essere vista sotto altra forma.
Chiudere, perciò, la mobilità del lavoro è un danno per tutti, in primi per i nostri ragazzi in gamba, che possono fare belle esperienze all’estero. È la “migliore assicurazione contro la disoccupazione oggi disponibile in Europa”.
È evidente che, su questo punto, cioè il boom di immigrati, le domande sono legittime, e che i cittadini hanno diritto a risposte certe, plausibili, ma senza pregiudizi e false informazioni. Qui manca il governo europeo di questo grande dramma, sapendo bene, comunque, la differenza tra rifugiati ed immigrati socio-economici.
Se i populisti, per Boeri, danno risposte sbagliate a domande legittime, si tratta, ora, di pensare alle possibili risposte giuste.
Qui le classi dirigenti devono farsi un bell’esame di coscienza, con scelte che dicano in concreto che i vecchi privilegi non possono più essere tollerati. La credibilità passa proprio attraverso quest’estate di coscienza. Boeri qui fa l’esempio dei vitalizi, per i parlamentari ed i consiglieri regionali. E sono note le sue proposte, mai accolte, per un loro ricalcolo in termini solo contributivi. Per tutti. Senza la pretesa di diritti acquisiti. Parole sante. Il coraggio di una vera “autoriforma”.
Un bell’esame di coscienza che deve accompagnare anche il mondo sindacale, il quale, per la maggior parte delle sigle, si limita a difendere i già garantiti, invece di promuovere la professionalità, dunque il merito, e nello stesso non protegge i più deboli, coloro che sono senza tutele. La quattordicesima, ad esempio, per Boeri, data a tutti i pensionati, senza pensare a chi ne ha veramente bisogno, è una contraddizione in termini: oggi in Italia solo tre euro su cento vanno al 10% più povero della popolazione; e spendiamo, dei cinque miliardi di euro in misure assistenziali, il 40% a favore dei più abbienti.
Se, poi, i sistemi di protezione sociale, adottati nei singoli Paesi europei sono stati sino ad oggi solo una risposta a crisi temporanee (sussidi di disoccupazione, cassa integrazione ecc.), si tratta ora di progettare politiche comuni, con diritti e responsabilità comuni. Senza privilegi e prebende.
Servono interventi strutturali con “strumenti che facilitino la ricollocazione professionale, il cambiamento di lavoro”, con forme di protezione della mobilità territoriale. Con, al centro, la riqualificazione, in termini di effettivo “servizio pubblico”, del mondo della formazione, nelle scuole e nelle università, come sul posto di lavoro, per la garanzia della formazione in itinere.
Oltre a questi provvedimenti, ci vuole, per Boeri, un “paracadute”, cioè il reddito minimo, “condizionato ad un impegno attivo nella ricerca di un impiego”. Cioè, un “reddito di cittadinanza attiva”, potremmo sintetizzare.
Solo così si realizzerà un “patto tra generazioni”, per ridurre al massimo le asimmetrie tra chi oggi è in pensione e chi invece si appresta ad entrare nel mondo del lavoro.
Tema delicato, politicamente direi pericoloso, vista la presenza massiccia di pensionati nei vari sindacati e determinanti a livello elettorale.
Ci vuole più Europa, non meno Europa, per risolvere anche i nostri problemi, le nostre contraddizioni. Ed è essenziale, a questo fine, che venga adottato, oltre a tutta una serie di politiche in comune, anche “un unico codice identificativo contributivo”, che segua tutti i laboratori nelle diverse forme di occupazione, tra Paesi europei.
Una forma concreta di “cittadinanza europea”.
“Perché senza l’Europa, conclude Boeri, senza una forte voce collettiva, saremo sempre troppo piccoli per contare quando si tratterà di affrontare e, speriamo, risolvere i grandi problemi di governance della globalizzazione e del progresso tecnologico”.