Uno
Il successo della protesta di giovedì 25 giugno u. s. è indiscutibile: in 60 città italiane, in modo coordinato e in stretto collegamento, docenti, studenti, personale ATA, genitori, esponenti della società civile, democratici e cittadini sensibili ai problemi della scuola hanno manifestato nelle principali piazze per fare arrivare al governo Conte (M5S, PD, Italia Viva e LEU) un forte segnale di opposizione alle politiche scolastiche che sta portando avanti l’esecutivo nel suo complesso e la ministra Azzolina in particolare. I manifestanti hanno chiesto al governo del Paese di cambiare rapidamente linea sulla scuola (investimenti, assunzioni, tutti a scuola a settembre, basta con la didattica a distanza – DAD -, basta con la regionalizzazione,…) e soprattutto hanno invocato a gran voce le dimissioni della ministra Azzolina, incapace di reggere un ministero così importante.
Una rinnovata coscienza del proprio ruolo
La forza della protesta riposa sulla capacità che avrà questo movimento, ancora in fieri, di coniugare locale e nazionale: il radicamento in ogni realtà e la dimensione nazionale della lotta, che assume così un valore politico alto, di ampio respiro e si confronta con le grandi questioni del Paese. Muovendo da un punto di forza indubitabile: una rinnovata coscienza del proprio ruolo, la consapevolezza della funzione decisiva dei docenti: questa è la verità.
I tagli di Gelmini e Tremonti
La nostra scuola, sia nell’emergenza sia in condizioni ordinarie, si regge solo sull’impegno e sulla dedizione degli insegnanti. E’ grazie a loro se tiene dignitosamente nonostante i gravi tagli economici da cui è stata colpita all’epoca Tremonti – Gelmini, che non sono stati mai riequilibrati dai governi successivi.
La nostra critica durissima all’attuale governo non deve lasciare alcuno spazio alla destra italiana, Salvini, Meloni, Berlusconi e tutti gli altri che sono schierati senza vergogna coi fascistoidi, perché la battaglia sulla scuola è per difendere e allargare la democrazia nel nostro Paese, per ridare priorità alla scuola della Repubblica democratica e antifascista, “dove l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. […] La scuola è aperta a tutti. […] I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.”
Due
La scuola è la più grande istituzione del Paese. E’ un organo <<costituzionale>>, un organo centrale della democrazia. Essa è consustanziale alla democrazia: scuola (istruzione, sapere) e democrazia nascono e vivono insieme. Senza l’istruzione come farebbero i cittadini a parlare tra loro, a confrontarsi, ad argomentare, a scegliere, a decidere, a decifrare un testo, ad apportare emendamenti e modifiche.
Istruzione di massa
L’istruzione in mano a pochi ci riporterebbe a società arcaiche, elitarie, oligarchiche, aristocratiche, regali, tipiche del passato remoto e del passato prossimo. Allo stesso modo, se la società non fosse basata sulla democrazia, sui principi dell’uguaglianza, del confronto fondato sul libero pensiero, sulla solidarietà, sulla mobilità sociale, sulla partecipazione, sul lavoro, sul riconoscimento e la reciprocità, sulla pace, significherebbe che l’istruzione, la cultura e la conoscenza sono state bandite da quella comunità.
Non per caso, la scuola è la più grande organizzazione culturale del Paese, nella quale ogni giorno, durante l’anno scolastico, vivono, studiano, discutono, si confrontano quasi dieci milioni di persone: alunni, docenti, personale ATA, figure dirigenti.
Il sacrificio della pandemia
Audrey Azoilay, ex ministra della cultura francese e direttrice generale dell’UNESCO dal 2017 ha dichiarato, tra l’altro, :”Nel momento più acuto della pandemia, oltre un sesto degli allievi non andavano a scuola. Ovvero un miliardo e mezzo di bambini nel mondo, dei quali oltre il 40%, cioè 700 milioni, non hanno accesso a Internet da casa. Quindi, un problema enorme. All’Unesco abbiamo cercato di sostenere la scuola online, a distanza, ma anche di favorire altri strumenti, come le lezioni via radio o tv. […] Nella grande maggioranza dei Paesi, all’inizio, non si è capito l’enorme sacrificio imposto ai nostri ragazzi. Anche in Europa le conseguenze a medio-lungo termine sono enormi, pure in Paesi come la Francia dove le scuole, benché riaperte, di fatto hanno accolto pochissimi allievi. Ogni Paese ha le sue condizioni sanitarie ma l’UNESCO incoraggia fortemente la riapertura delle scuole.”
Tre
La pandemia è stata e continua ad essere un flagello terribile che ha causato guasti profondi. Ma per una sorta di “eterogenesi dei fini” ha smascherato la scuola- azienda e ha dimostrato in maniera inequivocabile, inconfutabile, incontrovertibile, chiaro, esplicito, apodittica il fallimento della didattica a distanza (DAD). E’come se avesse agito hegelianamente la Ragione che astutamente, proprio quando tutti i cantori del liberismo selvaggio e dell’economia al posto di comando perché “è il capitalismo bellezza”, ha mostrato esattamente l’opposto di tutto ciò e fatto vedere la realtà così com’è e non come vorrebbero, lorsignori, che fosse sulla base dei loro pregiudizi ideologici. Infatti, al di là della loro collocazione opportunistica, dettata solo da becero utilitarismo, le diverse forze politiche sono state d’accordo nel tentativo di demolire la scuola pubblica, la scuola di qualità e di massa, dei nuovi programmi, delle sperimentazioni democratiche, sostituendola con quella aziendalistica che ha usato all’inizio, come cavallo di Troia, l’autonomia di Luigi Berlinguer (anni Novanta) e poi via via tutte le altre controriforme che l’hanno ferita.
La scuola deve ripartire
Ma la scuola non è morta e da questa condizione deve ripartire e riprendere la sua centralità come scuola comunità, della comunicazione; dove si utilizza il linguaggio verbale e non verbale, ma anche i codici analogici: la mimica, la gestualità, le posture, le prossemiche. La comunicazione nella sua complessità, che intreccia il verbale e il non verbale, le informazioni e gli atteggiamenti in un contesto sociale effettivo, e non in un mero spazio virtuale, che rimane astratto. Il processo di socializzazione richiede lo sviluppo della capacità di decodificare la comunicazione nella sua complessità, a partire dall’importanza che riveste il luogo dove si svolge il dialogo educativo, mentre con la DAD non c’è il legame sociale, ci sono forti limiti relazionali e manca il qui. “L’aula scolastica non è solo lo spazio fisico, è anche un luogo simbolico, nel quale per l’alunno è percepibile il legame sociale e affettivo col proprio gruppo classe e sono attingibili i segni della propria esperienza (si pensi all’uso delle pareti per esporre cartelloni e i lavori svolti, disegni, foto, eccetera). In questo senso, invece, per il discente lo spazio virtuale tende verso la dimensione del non luogo, non tanto perché immateriale ma perché in esso questo legame sociale non è più chiaramente percepibile e i segni della propria esperienza non sono più rintracciabili”. (M. Augé, Nonluoghi, Eléuthera, Milano 2000)
Nell’insegnamento in classe si sta faccia a faccia, si coglie bene il volto dell’altro, tutto si fonda sulla reciprocità-riconoscimento, le domande e le risposte sono calibrate in rapporto allo spazio-tempo, il feedback è essenziale così come è altrettanto fondamentale l’attività laboratoriale.
La scuola lotta contro le disuguaglianze
La scuola è, dunque, per definizione la sede della lotta alla diseguaglianza; l’istituzione dove gli scarti tra i discenti possono essere ridotti e (lo ribadiamo a scanso di equivoci) la didattica in presenza è senz’altro lo strumento migliore.
Rifiutiamo qualsiasi forma, aperta o surrettizia, esplicita o strisciante, di descolarizzare la società(Ivan Illich): la vera modernità è quella culturale, quella dell’emancipazione dell’essere umano e dello sviluppo intellettuale e morale di tutti i membri della comunità sociale: e per ottenere questo risultato c’è bisogno di tanto pensiero critico, un pensiero che abbia come finalità la trasformazione dell’esistente nell’ottica del progresso, del cammino dell’umanità verso la libertà e l’uguaglianza.
Quattro
La realtà si è incaricata di smascherare la retorica aziendalista perché il fare scuola non dipende dal controllo occhiuto dei “guardiani della galassia”; la questione vera non è il controllo poliziesco sul personale, ma come mettere la scuola e i docenti nelle condizioni di poter svolgere al meglio il proprio lavoro: la scuola la fanno i docenti e gli alunni e deve fondarsi sull’autorganizzazione di tutte le componenti che in essa operano e producono cultura. Bisogna far tramontare la figura del dirigente decisionista, che spesso riesce solo a spegnere la passione e l’iniziativa di insegnanti e allievi.
L’aziendalismo inconsistente
E’ venuta alla luce l’inconsistenza del mito aziendalista, mentre è stata riaffermata la centralità della dimensione comunitaria del fare scuola. Comunità democratica che si regge sulla partecipazione attiva e sulla cooperazione dei suoi membri, sulla passione civile per l’insegnamento e sulla voglia di imparare, nella quale tutti trovano l’opportunità di una crescita intellettuale ed etico-sociale.
A questo punto, per concludere, diamo la parola a Kant:”Intendo per uso pubblico della propria ragione l’uso che uno ne fa, come studioso, davanti all’intero pubblico dei lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che ad un uomo è lecito farne in un certo ufficio o funzione civile di cui è investito. Ora per molte operazioni che attengono all’interesse della comunità è necessario un certo meccanicismo, per cui alcuni membri di essa devono comportarsi in modo puramente passivo onde mediante un’armonia artificiale il governo induca costoro a concorrere ai fini comuni o almeno a non contrastarli. Qui ovviamente non è consentito ragionare, ma si deve obbedire. Ma in quanto nello stesso tempo questi membri della macchina governativa considerano se stessi come membri di tutta la comunità e anzi della società cosmopolitica, e si trovano quindi nella qualità di studiosi che con gli scritti si rivolgono a un pubblico nel senso proprio della parola, essi possono certamente ragionare senza ledere con ciò l’attività cui sono adibiti come membri parzialmente passivi. Così sarebbe assai pernicioso che un ufficiale, cui fu dato un ordine dal suo superiore, volesse in servizio pubblicamente ragionare sull’opportunità e utilità di questo ordine: egli deve obbedire. Ma è iniquo impedirgli in qualità di studioso di fare le sue osservazioni sugli errori commessi nelle operazioni di guerra e di sottoporle al giudizio del suo pubblico. Il cittadino non può rifiutarsi di pagare i tributi che gli sono imposti; e un biasimo inopportuno di tali imposizioni, quando devono essere da lui eseguite, può anzi venir punito come uno scandalo (poiché potrebbe indurre a disubbidienze generali). Tuttavia costui non agisce contro il dovere di cittadino se, come studioso, manifesta apertamente il suo pensiero sulla sconvenienza o anche sull’ingiustizia di queste imposizioni (sottolineatura mia). Così un ecclesiastico è tenuto a insegnare il catechismo agli allievi e alla sua comunità religiosa secondo il credo della Chiesa da cui dipende, perché a questa condizione è stato assunto: ma come studioso egli ha la piena libertà e anzi il compito di comunicare al pubblico tutti i pensieri che un esame severo e benintenzionato gli ha suggerito circa i difetti di quel credo (sottolineatura mia), nonché le sue proposte di riforme della religione e della Chiesa. In ciò non v’è nulla di cui la coscienza possa venir incolpata. Ciò che egli insegna in conseguenza del suo ufficio, come funzionario della Chiesa, egli infatti lo espone come qualcosa intorno a cui non ha la libertà di insegnare secondo le sue proprie idee, ma che ha il compito di insegnare secondo le istruzioni e nel nome di un altro.” (I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, a cura di Nicolao Merker, Editori Riuniti, Roma, 1991, pp. 20-21)
Che fare
Che fare, allora?
1) Assunzione docenti e personale ATA –concorsi; 2) Lavori di ristrutturazione nelle scuole e reperimento nuove aule; 3) Vertenza trasporti (come arrivare a scuola?)