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I ritardi del Mezzogiorno riguardano anche l’istruzione

Nel 2005 solo il 37,5 per cento della popolazione di età compresa tra i 25 e i 64 anni aveva terminato le scuole medie superiori, circa 8 punti percentuali in meno della media Ocse.
Il divario è ancora più ampio se si considerano coloro che hanno conseguito un titolo universitario (12 per cento, circa la metà della media Ocse).
Solo 76 teenager su 100 hanno un diploma di scuola secondaria, uno dei valori più bassi tra le economie avanzate (Ocse, 2006).
A questo si aggiunge un marcato dualismo del Paese anche per il livello di scolarità raggiunto dalla forza lavoro: numerosi indicatori, come i tassi di iscrizione alla scuola dell’obbligo e a quella secondaria o la percentuale di persone senza istruzione formale, assumono nelle regioni del Mezzogiorno valori deludenti nel confronto con il Centro Nord (Istat, 2005).
Questi sono alcuni dei dati contenuti nel volume della Banca d’Italia “Mezzogiorno e politiche regionali” che raccoglie una serie di ricerche presentate nel corso del convegno tenuto a Perugia il 26-27 febbraio 2009.
Il progetto trae la sua principale motivazione dal perdurante ritardo delle regioni meridionali, dove il Pil per abitante è inferiore al 60 % di quello delle regioni del Centro Nord e un quinto del lavoro è irregolare, con il conseguente intensificarsi dei flussi migratori dal Sud al Nord, che interessano in misura rilevante giovani con elevati livelli di scolarizzazione.
Un capitolo del volume riguarda il rapporto tra occupazione irregolare e livello di istruzione: l’analisi dei dati rileva che ad un basso livello di istruzione si associa un’elevata probabilità di svolgere un lavoro irregolare. Quindi, all’aumentare del livello d’istruzione, si riduce la probabilità di lavoro sommerso. Non si riscontra invece la presenza di un nesso di causalità inverso: la presenza di maggiori opportunità di lavoro nel settore informale non appare influenzare la scelta di abbandonare gli studi. L’investimento in istruzione appare dunque uno strumento efficace per contrastare il lavoro sommerso.
La probabilità di lavorare nel settore sommerso dipende da un’ampia gamma di variabili socio-demografiche ed economiche. L’abbandono della scuola superiore risulta avere un impatto significativo sull’ampiezza dell’occupazione irregolare. Il passaggio dal livello di istruzione obbligatoria alla laurea riduce tale probabilità per uomini e donne rispettivamente di 11 e 14 punti percentuali. Il guadagno che si realizza passando dalla scuola dell’obbligo al diploma è più marcato di quello che si ottiene avanzando dal diploma alla laurea. Il passaggio dall’assenza di titoli formali di studio al conseguimento del titolo della scuola dell’obbligo diminuisce il rischio di avere un lavoro irregolare rispettivamente di 15 e 18 punti percentuali.
Il confronto per genere evidenzia per le donne una probabilità di lavorare nel sommerso sempre superiore a quella per gli uomini; il divario si riduce con il livello di istruzione. Le differenze tra i gruppi di diversa età sono meno marcate, con una minore probabilità di essere sommersi per i soggetti più anziani (ovvero per coloro che presumibilmente hanno accumulato una maggiore esperienza nel mercato del lavoro); l’andamento seguito dai più giovani (tra i 14 e i 34 anni) è leggermente differente, con un livello relativamente più basso della probabilità di lavorare irregolarmente per i gradi di istruzione medio-bassi. 
Ciò appare coerente con il fatto che negli anni recenti i lavoratori più giovani sono stati frequentemente assunti con contratti atipici, caratterizzati da minori costi per le tutele previdenziali e assistenziali. La probabilità di lavorare nel segmento sommerso è nel Sud almeno doppia rispetto al Centro-Nord per livelli di istruzione inferiori a quella secondaria, e prossima al 50 per cento per coloro che non hanno conseguito alcun titolo; il divario si riduce nettamente per i laureati ed è sostanzialmente nullo per chi ha un titolo post laurea.
La probabilità di lavorare irregolarmente è solo marginalmente influenzata dal livello di istruzione per i lavoratori autonomi, la cui probabilità è più elevata di quella per i lavoratori dipendenti per gradi di istruzione successivi all’adempimento dell’obbligo scolastico. Ciò appare in linea con l’ipotesi che lavorare nel settore non regolare sia una opzione desiderabile per gli autonomi, mentre sia una condizione non scelta, “di ultima istanza” per i lavoratori dipendenti, specie quelli più istruiti.
Il lavoro esamina, inoltre, il progetto degli “Obiettivi di Servizio”, la nuova programmazione contenuta nel Quadro strategico nazionale (QSN), relativa all’impiego dei fondi comunitari per il periodo dal 2007 al 2013. il progetto prevede interventi in quattro ambiti specifici: innalzare i livelli d’istruzione degli studenti e di tutta la popolazione; aumentare l’offerta di servizi per la prima infanzia e socio-sanitari, soprattutto in favore degli anziani; migliorare il servizio idrico; migliorare la gestione dei rifiuti urbani. 
Al raggiungimento di target quantitativi prefissati è connesso un sistema di premialità che rende disponibili risorse aggiuntive rispetto a quelle già stanziate per le regioni. Se il valore di ciascun indicatore si modificasse nel prossimo futuro seguendo le tendenze recenti, – rilevano gli autori – in nessuna regione, alla scadenza, si raggiungerebbe l’obiettivo fissato per tutti gli indicatori. Sulla base dei progressi osservati negli ultimi anni, l’impegno richiesto ai fini del raggiungimento degli obiettivi sembra quindi notevole.
Un’ulteriore analisi riguarda, infine, il calcolo di alcune misure di efficienza per quattro servizi pubblici (istruzione, sanità, giustizia e asili nido) nelle province italiane. I risultati mostrano, anche in questo caso, l’esistenza di notevoli differenze territoriali e l’efficienza del settore pubblico nelle province del Sud risulta inferiore a quella media italiana. 
L’efficienza dei servizi pubblici dovrebbe, in linea di principio, derivare dall’impegno che gli amministratori esercitano nella loro azione. Questo impegno, in presenza di possibili comportamenti opportunistici, dipenderebbe a sua volta dallo sforzo che i cittadini sono disposti a esercitare per monitorare l’attività degli amministratori. In sintesi, i risultati suggeriscono che, indipendentemente dal grado di decentramento, un governo che funzioni bene richiede la presenza di cittadini attivi, capaci e disposti a controllare, ed eventualmente punire, gli amministratori inefficienti.
E al Sud, secondo l’analisi di Bankitalia, si è ancora molto lontani in questo senso.
Lara La Gatta

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