C’è un Paese in cui non tutti i sindacati hanno gli stessi diritti. Così anche nella Scuola, ove pochi sindacati hanno soldi, distacchi e privilegi, e tutti gli altri no. Perché? Perché quei pochi sindacati sono “maggiormente rappresentativi”. «Giusto», più di qualcuno dirà. Sì, se non fosse che una legge, tagliata su misura per quei pochi sindacati, impedisce che altri sindacati possano farsi conoscere dai lavoratori e competere con i primi per diventare a loro volta “maggiormente rappresentativi”.
In quel Paese la legge sulla rappresentanza sindacale sembra uscita dalla penna di Orwell.
Stiamo parlando di un Paese africano? Di un arcipelago dell’Oceania? Del Cile di Pinochet? Nossignori. Stiamo parlando della democratica Italia nell’anno 2018 d.C.
Nel Paese di Pulcinella fino al 1997 la legge era comunque restrittiva, ma più equa: a qualunque sindacato, per diventare rappresentativo, bastava raggiungere il 5% dei voti validi nelle elezioni di categoria: la rappresentatività poteva esser raggiunta anche solo a livello provinciale (per le contrattazioni decentrate) o nazionale (per la contrattazione relativa al rinnovo del contratto nazionale di categoria). Per partecipare si presentava una lista nazionale e/o più liste provinciali. Tra un’elezione e l’altra il 5% si calcolava sul numero degli iscritti.
Ebbene, fu il ministro della Funzione Pubblica Franco Bassanini (Governo Prodi I, di centrosinistra, con l’appoggio esterno di Rifondazione Comunista) scardinare questa equità. Una sua legge (il Decreto Legislativo 4 novembre 1997, n. 396) vieta liste nazionali; impone liste decentrate; delega ai sindacati già “rappresentativi” le scelte normative di dettaglio.
Così da allora, per avere speranza di ottenere voti a sufficienza, è indispensabile essere in grado di presentare una lista in ognuna delle 8.400 scuole della Repubblica. Sogno avverabile solo (guarda caso) per CGIL, CISL, UIL.
Fu così che, in ogni scuola, nacquero le Rappresentanze Sindacali Unitarie (RSU): cosa ottima, se esse non fossero destinate a trattare solo su temi di minima rilevanza. I nodi cruciali, invece, vengono da allora normati nei contratti provinciali e nazionali: i quali, si badi bene, sono discussi e stabiliti solo dai plenipotenziari che vengono nominati dai funzionari dei suddetti sindacati “rappresentativi” (e non eletti dai lavoratori).
I sindacati maggiori possiedono un’armata di almeno quattromila “distaccati” (il cui stipendio è liquidato mensilmente grazie ai soldi dei contribuenti). Con quest’armata le organizzazioni sindacali minori non possono competere. Per incapacità? No, per legge: infatti ai sindacati “non rappresentativi” è negato ogni dispositivo di sostegno; persino i permessi sindacali.
Anzi, c’è ben di più: ai sindacati minori è proibita persino la convocazione di assemblee in orario di servizio. Col risultato che i lavoratori della Scuola (che solitamente disertano persino le assemblee in orario di servizio dei sindacati maggiori), vengono privati del diritto di ascoltare nelle ore lavorative la voce di sindacalisti alternativi a quelli soliti. E, ovviamente, non sacrificano ore di tempo non lavorativo a questioni politico-sindacali (in un Paese in cui, purtroppo, la coscienza civica scarseggia da decenni e la chiusura nel privato è sempre più evidente).
Così, il gioco è fatto: ai sindacati piccoli e alternativi è interdetta de facto la campagna elettorale; pertanto diventa per essi difficilissimo reperire sottoscrittori e candidati per le liste; e, anche laddove candidati e sottoscrittori si trovino, è impossibile far conoscere a tutti il proprio programma.
Calcolatrice alla mano, si possono fare due semplici conti: per presentar liste in tutte le scuole d’Italia serve la bellezza di 40.000 firme: paradosso tanto più assurdo se si pensa che, per presentare una legge d’iniziativa popolare in Parlamento, bisogna raccoglierne solo 10.000 in più!
Se una diavoleria simile vigesse per le elezioni politiche nazionali, ogni partito dovrebbe presentare una lista in ogni seggio e raccogliere 600.000 firme per proporsi in tutta Italia! Chi, oltre a PD e Forza Italia, potrebbe farlo?
Ma perché architettare un marchingegno così contorto al posto delle norme precedentemente vigenti? Forse per l’imbarazzo di permettere la competizione ad armi pari anche ai sindacati che criticano le scelte della vecchia politica sindacale? Forse per paura del pluralismo? Forse per impedire ai lavoratori di scegliere i delegati alle trattazioni? Lungi da noi un simile sospetto! Sicuramente quella legge fu varata nel superiore interesse della Patria. Anche se, come diceva papa Pio XI (poi citato da un certo Andreotti, che di Potere se ne intendeva), «A pensar male del prossimo si fa peccato ma si indovina».
Ebbene, sulla torta della legge sulla rappresentatività sindacale c’è una bella e succulenta ciliegina, relativa ai criteri di calcolo della rappresentatività stessa, proprio sulla base delle elezioni RSU: ma di questo parleremo in un prossimo articolo.
Alvaro Belardinelli, dell’Esecutivo Nazionale di Unicobas Scuola & Università
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