Incoraggiare con un sorriso l’alunno che è andato male in una prova appare a tutta prima una buona idea. Eppure le evidenze scientifiche sembrano metterci in guardia su approcci comunicativi di questo tipo.
Di fronte ad una comunicazione ambigua fra insegnante e alunno, in cui le parole dicono una cosa (“Dai che ce la fai, lo so!”) e il corpo ne dice un’altra (“Non so proprio che pesci prendere con te, sembra quasi che tu non capisca niente!”), i segnali che arrivano dal corpo hanno una credibilità enormemente superiore agli occhi dell’interlocutore (l’alunno, in questo caso).
Il motivo è che è facile mentire con le parole, lo è molto meno col corpo. Per cui ci si fida di più istintivamente di quest’ultimo. Non si tratta qui di fare i sospettosi ad ogni costo: è proprio una scelta filogeneticamente adattiva.
Ma si può mentire col corpo? Si può provare a farlo, ma è estremamente difficile. L’esempio classico ce lo offre il sorriso non spontaneo, d’occasione, per esempio quello messo in campo dall’insegnante per incoraggiare un alunno che ha sbagliato per l’ennesima volta qualcosa e per il quale non si sa più che strategia didattica adottare.
Se l’insegnante sta pensando qualcosa di negativo (“Con Carletto non c’è niente da fare!”), ma prova ugualmente a imbastire un sorriso, questo tende a manifestarsi inevitabilmente come falso. Esso coinvolge la corteccia motoria e il cosiddetto sistema motorio piramidale, con dinamiche cerebrali diverse rispetto a quella coinvolta nel sorriso autentico.
Quest’ultimo coinvolge infatti, oltre al muscolo zigomatico maggiore, il muscolo orbicolare degli occhi, chiamato anche “muscolo di Duchenne”, il famoso neurologo francese, esperto di atrofie muscolari, che ne ha trattato per primo nell’Ottocento. Quest’ultimo è un muscolo involontario, attivato non dalla corteccia motoria ma da aree del sistema limbico e dai gangli della base.
Il problema sorge per il fatto che i due sorrisi, in quanto profondamente diversi, generano anche effetti diversi in chi li osserva: una sensazione di consonanza positiva, nel caso del sorriso spontaneo e, invece, una sensazione di intoppo relazionale e di disagio, nel caso del sorriso artificiale. L’alunno sente, magari senza una piena consapevolezza, che l’insegnante in un certo senso gli sta mentendo e si scoraggia ancora di più, paradossalmente, se intuisce che l’intenzione è quella di incoraggiarlo. Penserà infatti: “Allora sono messo proprio male!”
La teoria razionale emotiva comportamentale ci dice che sono soprattutto i pensieri e i modelli mentali ad attivare le emozioni (che attivano poi la risposta corporea). E’ sui pensieri quindi che bisogna semmai lavorare: “Il fatto che Carlo abbia sbagliato per l’ennesima volta non vuol dire che, pur con i suoi tempi, non ce la farà successivamente. Si tratta di trovare la strada giusta. Siamo stati smentiti tante volte da ragazzi che, semplicemente crescendo, hanno superato grossi blocchi sul piano cognitivo”.
Provare a leggere con gli alunni qualche pagina di “Diario di scuola”, di Daniel Pennac, alunno con carriera scolastica fallimentare, poi diventato scrittore umoristico di livello mondiale, potrebbe aiutare. Anche perché l’autoironia di Pennac svolgerebbe una sorta di funzione catartica sui ragazzi, soprattutto su quelli che si identificherebbero nella sua terribile situazione passata. E genererebbe probabilmente anche qualche sorriso. Autentico.
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