C’è stato un tempo, anche se ormai non ce lo ricordiamo quasi più, in cui la scuola italiana non era accessibile a tutte/i. Parliamo di quel tempo in cui i diritti erano sconosciuti o, tutt’al più, confusi con privilegi e concessioni. Un tempo in cui il lavoro era considerato alla stregua di una merce e le persone valevano molto meno delle merci stesse. C’è stato poi, invece, un altro tempo in cui la scuola ha rappresentato il luogo dell’orizzontalità per eccellenza. La scuola era finalmente diventata un ambiente che offriva le stesse opportunità a tutte/i coloro che la frequentavano, e che, attraverso la mescolanza di persone con le più diverse e variegate estrazioni sociali, garantiva così non solo perfino al “figlio dell’operaio di diventare dottore”, ma anche di far incontrare dei mondi che, altrimenti, non l’avrebbero fatto mai. A partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, le istituzioni scolastiche ed educative in generale hanno assolto ad una funzione storica straordinariamente rilevante, ovvero quella di costituire il più importante ascensore sociale del Paese. Il sistema scolastico italiano, insomma, tentava, in qualche modo, di funzionare in accordo con le idee dell’illuminato e rivoluzionario pedagogista brasiliano Paulo Freire secondo cui «l’educazione che non trasforma la società è un’educazione che riproduce le disuguaglianze». E, per qualche decennio, la scuola ha se non impedito, almeno reso molto difficile riprodurre le suddette disuguaglianze.
Come siamo giunti dunque, nel giro di pochi lustri, a collocarci, secondo l’ultimo OECD Better Life Index (è un indice che consente di confrontare il grado di benessere dei diversi paesi, sulla base di undici parametri, tra i quali l’istruzione), al 34° posto su 41 per il livello di istruzione medio della popolazione, al 31° per il livello di competenze raggiunto da studentesse e studenti, e al 29° su 41 per anni di istruzione? Di certo attraverso un numero spropositato di riforme sbagliate, un continuo e costante disinvestimento dei governi nell’istruzione e nella cultura, e l’ormai quasi totale subordinazione di sapere e conoscenza alle bieche e spregiudicate logiche del mercato neoliberista. Un esempio su tutti sono le condizioni di reclutamento e di lavoro delle persone precarie che lavorano nella comunità educante, diventate, negli ultimi anni, letteralmente insostenibili. Le vite di centinaia di migliaia di persone sono messe ogni anno nelle mani di un algoritmo che funziona in modo fallace e ingiusto; i concorsi per stabilizzarci sono una roulette russa, buoni solo a farci incamerare nozioni e frustrazione, e con regole e programmi modificati di volta in volta senza criterio. E potremmo continuare ma citeremo solo un’ultima, aberrante mostruosità ovvero i nuovi percorsi abilitanti. Attivati alla chetichella e con pochissimi posti disponibili rappresentano senza dubbio il trionfo della diseguaglianza; difatti, non solo prevedono disparità di impegno e carico di lavoro (in base al fatto che ci si sia iscritte/i ad un percorso di una Università pubblica o privata), ma sono a numero chiuso e caratterizzate da costi decisamente rilevanti. E infine sono obbligatori per chi vince un concorso, al fine di ottenere l’agognato ruolo. Una tassa sulla stabilizzazione insomma, che forse sarebbe più corretto chiamare “pizzo di Stato”. Una tassa che discrimina, consentendo l’ottenimento del ruolo non già a chi ha la preparazione, la passione, la coscienza per fare questo lavoro ma a chi si può permettere di pagare per ottenerlo. Un ritorno a una scuola vergognosamente classista che non solo continua a discriminare alunni/e in base al reddito, ma adesso lo fa anche con i/le docenti che si ritrovano, dopo aver pagato fior di quattrini per poter studiare, a dover pagare anche per poter lavorare. Ma si tratta in fondo della chiusura della parabola neoliberista per cui l’accesso all’istruzione e ai finanziamenti deve servire a mantenere un sistema gerarchico, che tuteli sempre gli interessi della classe dominante.
Ed è proprio per combattere la deriva individualistica verso cui la scuola sembra stia scivolando inesorabilmente, che saremo protagonisti, il prossimo 12 ottobre della manifestazione nazionale a Roma (corteo da P. Esquilino/Santa Maria Maggiore, ore 15) promossa su iniziativa di ESP (Educazione senza prezzo). Saremo assieme ad altre strutture di precari/e e ad altri sindacati conflittuali della scuola, perché vogliamo essere gli argini di questo furto di futuro e democrazia, vogliamo difendere e migliorare la scuola pubblica e dire basta al precariato dilagante e permanente. Una manifestazione immaginata per dare voce e spazio a molte delle rivendicazioni specifiche che stanno animando le lotte in questo periodo senza però mai perdere di vista l’orizzonte generale, ovvero quello di lottare per un’istruzione di qualità per tutti/e, per la dignità di chi lavora ogni giorno per continuare a costruirla, per il diritto delle future generazioni a un sapere laico, gratuito e di qualità. E poi, perché si tratta del primo tentativo, dopo molto tempo, di riunire quello che il neoliberismo ha diviso, in particolare il vastissimo mondo del precariato indifeso. Un tentativo che ci lascia ben sperare.
Anna Belligero Esecutivo nazionale COBAS Scuola
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