A 12 mesi dal titolo di studio, il 79,5% dei diplomati Its è già in azienda; e nel 70% dei casi svolgono un’attività lavorativa coerente con il percorso formativo concluso, secondo due direttive: formazione “on the job” (quest’anno sono salite a 1.688 le aziende che hanno ospitato stage) e la presenza di docenti che provengono dal mondo del lavoro (il 50% degli “insegnanti” sono imprenditori o loro collaboratori, circa il 30% liberi professionisti).
Il Sole 24 Ore commentando, dal suo punto di vista, questo corso di studi, aggiunge che comunque gli «Its» restano una realtà di nicchia e che i frequentanti oscillano tra i 5/6mila ragazzi (in Germania, nelle «Fachhochschulen», analoghi istituti di formazione terziaria professionalizzante, si specializzano oltre 800mila studenti).
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Il motivo di così poco appeal starebbe nelle scarse risorse a queste scuole destinate: il ministero dell’Istruzione finanzia queste “super scuole” con appena 13 milioni l’anno, a fronte dei 7 miliardi che vanno all’università (a fine 2016 si è perso tra i faldoni parlamentari l’emendamento per raddoppiare le risorse destinate agli Its). Ed è svanita nel nulla anche la più volte evocata semplificazione, a partire da governance e adempimenti burocratici.
Un peccato, perchè lo strumento funziona, e le imprese ci credono: a maggio, il vice presidente per il Capitale umano di Confindustria, ha chiesto alla ministra Valeria Fedeli «un piano coraggioso» di potenziamento degli «Its».
Con tre punti fermi: orientamento (vero) per famiglie e docenti, fondi certi e crescenti, nessuna “confusione” con le lauree professionalizzanti.