Personale

Il bilancio di quest’anno? Sconfortante e Dad accolta con rassegnazione

Dalla prof Annamaria Zizza, docente di lingua e letteratura italiana al liceo classico “Gulli e Pennisi” di Acireale, riceviamo un appassionato resoconto dell’anno scolastico che sta per terminare, con una meditata riflessione sul futuro degli esami di Stato e dunque dell’istruzione nel nostro Paese    

Definire annus horribilis questo che sta concludersi è certo un eufemismo. E’ stato molto di più: è stato un anno funestato da ordini e contrordini, inferti con l’accetta da un ministero confuso e senza idee precise, se non una certa ideologia volta alla rassicurazione nei confronti dell’opinione pubblica, spesso a prescindere dai dati e dalle considerazioni di semplice buon senso, che un qualsiasi addetto ai lavori avrebbe saputo fare.

Abbiamo cominciato con la didattica mista, nel tentativo, difficile ma preferibile alla DaD, di iniziare l’anno scolastico all’insegna della speranza. Pur con molte difficoltà siamo riusciti, con la flessibilità e l’ ubbidienza quasi militare, da falange oplitica,  che i docenti sanno imprimere alla loro quotidianità, ad adattarci ad una nuova didattica. Poi la Sicilia è diventata zona rossa ed è tornata, puntuale come una cambiale in protesto, la Dad. Ed ecco sugli schermi i visi dei nostri alunni, le sagome delle camerette da letto, del tavolo della cucina o  della vetrinetta del salotto buono. Solo, lo stato d’animo non era più quello delle adunate nei balconi dell’anno scorso, al grido di “Ce la faremo!” e di “Viva l’Italia”, del canto a gola spiegata o della solitaria tromba di un pomeriggio domenicale. La propaganda aveva fatto il suo tempo e nessuno più credeva che sarebbe stato un breve ed indolore sacrificio, non quando ogni giorno si scornavano i virologi in TV durante i talk show o i programmi mattinali, prima osservati da un pubblico numeroso, adesso evitati accuratamente, o quando, dopo le 17, i giornali online snocciolavano il bollettino di guerra: vittime, indice di contagio, numero di contagiati. Tutto normale, ormai. Persino banale, se ci si pensa bene. Perché ci si adegua a tutto, anche al dolore quotidiano e ai racconti dalle trincee ospedaliere. E la memoria, come dice Montale, si sfolla anche quella.

Ecco, quella dello scorso anno scolastico è stata una sfida che gli alunni- e in parte i docenti – hanno raccolto col guanto di chi sperimenta il nuovo e che del nuovo è curioso, di chi spera che il sacrificio valga la pena e che coaguli la Nazione attorno alla ritrovata unità- simile a quella che un tempo raccoglieva sotto un’unica tifoseria milanisti ed interisti per la partita della Nazionale. 

La Dad di quest’anno è stata accolta con tristezza, con rassegnazione composta, ma pur sempre con rassegnazione. Poi è tornata la didattica mista e infine, dal cilindro di un ministero, che emana ordinanze al ritmo frenetico di una danza tribale, la didattica in presenza. E poco importa se le ditte dei trasporti non dispongono di adeguati mezzi: si possono sempre organizzare i turni, non è vero? Tanto docenti, alunni e famiglie si adeguano a tutto. 

Siamo arrivati quasi alla fine, ma la mia personale sensazione, a cui hanno fatto eco anche i miei alunni, è che quest’ anno scolastico non finisca più e che niente tornerà davvero come prima. E’ subentrato in molti operatori la paura e una sorta di strisciante disagio che assomiglia in taluni casi alla depressione. In questo panorama, desolato come il deserto del Gobi, ecco l’ennesima perla del ministro Bianchi, un rettore apparentemente insensibile alla didattica, che, come molti suoi pari,  probabilmente relega negli inferi delle disprezzate scuole superiori. 

Così, nell’ idea di scuola – pardon, nella “vision” di scuola dominante- viene instillata, come gutta che scava la pietra, l’idea che gli Esami di Stato, prima propedeutici al passaggio universitario, quasi rito iniziatico come l’ordalia medioevale, aspettati con ansia e ricordati persino con piacere anni dopo la loro celebrazione, possano abdicare agli scritti, perché tanto è lo stesso. Così ho letto qualche giorno fa nell’ennesima e imperdibile (sic!) esternazione dell’ineffabile ministro. 

Eh, no. Un esame di stato senza scritti non è da auspicare. Soprattutto se qualcuno- forse una parte residuale dei docenti, ormai sempre più stanchi e demotivati- crede ancora nella scuola come agenzia di formazione umana e culturale e non come bancomat per le spese accessorie. Un esame di stato senza scritti presuppone la progressiva assenza di scritti anche nel quinquennio precedente. Perché, infatti, esercitarsi nelle produzioni scritte se gli Esami di Stato non le prevedono? Perché tradurre dal latino e dal greco, già pesantemente penalizzati nella seconda prova, anche questa rimodellata dall’ ennesimo ministro? Perché produrre testi nella propria lingua madre quando nessuno agli Esami di Stato correggerà uno scritto? E poco conta che ai concorsi i commissari troveranno sconcezze grammaticali ed errori di ortografia nelle prove. Alcuni, ne sono sicura, troveranno l’idea interessante e assai stimolante  e magari saranno gli stessi che inneggiavano lo scorso anno alla Dad come espressione di modernità e che guardano con fastidio alla pila di verifiche da correggere- specie quelle di italiano, le più nutrite, anche come mole. Correggere è operazione complessa e in generale poco amata, ma l’abilità dello scritto non può essere eliminata con un colpo di forbice dalla Trimurti “conoscenze, competenze, abilità”. Non possiamo condannare il nostro Paese all’ ignoranza e mandare in Parlamento una classe dirigente culturalmente peggiore di quella che oggi “decora” i palazzi del potere, e già in crisi col congiuntivo e con la consecutio temporum. Il vero allarme attualmente, a parer mio, è nella crisi dell’ Italiano, ormai sconosciuto ai più e vera lingua straniera. Basta aprire un giornale o sfogliare velocemente i social per individuare i chiari e incontrovertibili segni della crisi. Si tratta di una crisi che parte da lontano, a parer mio, dall’ Illuminismo lombardo della “Rinunzia avanti notaio al vocabolario della Crusca”. 

Solo che la provocazione dell’ Accademia dei Pugni, pur nei toni esaltati e quasi da pubblicisti che la caratterizzavano, non implicava la rinuncia all’identità culturale nazionale, rinuncia che ormai mi appare appena dietro l’angolo e a cui guardo con lo stesso orrore con cui osservo il fenomeno di cui è il portato: la globalizzazione scomposta, frutto di un’economia di cui la politica è ormai succuba e che guarda al cittadino come semplice consumatore. 

E la scuola? Fino a quando i docenti abbasseranno gli occhi a terra anziché alzarli al cielo, in cerca di stelle polari?

 Annamaria Zizza

Redazione

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