Il dottor Ghezzani, psicologo, esperto dei disturbi d’ansia, porta avanti uno studio sul burn out nel volontariato. Il parallelismo tra il volontario e il docente, entrambi impegnati in una relazione d’aiuto, mi orienta verso alcune domande che ho deciso di rivolgere al dottor Ghezzani. L’intervista mira non tanto a stabilire cosa sia il burn out, su cui, a livello di definizione, si è scritto tanto, ma a cercare di capire come e perchè ci si arriva. Da un punto di vista evolutivo quindi ed educativo. E, di conseguenza, cercare di capire come, ognuno di noi, e la scuola più in generale, può intervenire nella formazione dei docenti in servizio e dei neoassunti.
D: Dottor Ghezzani quali sono le sottili dinamiche, o i prerequisiti (mi consenta il termine tipicamente tecnico) – cognitivi ed emotivi – che inducono nell’insegnante quelle emozioni che fanno da humus al burn out?
R: Premetto che l’ambito della scuola non è il mio specifico. Sono psicoterapeuta e lavoro nel campo del disagio psichico. Ho incontrato il fenomeno del burn out dapprima riflettendo sui rischi del mio stesso lavoro, poi attraverso l’esperienza di operatori professionali o volontari di associazioni che lavorano nel campo delle relazioni di aiuto.
Per comprendere appieno il fenomeno del burn out (quel fenomeno psicologico di crollo emotivo e talvolta anche fisico che può accompagnare l’esercizio di una professione di aiuto), occorre valutare sia il dato psicologico che quello sociale.
La realtà sociologica della scuola è pregna di ambiguità. Nella sua concezione moderna, di scolarizzazione di massa, è nata circa un secolo fa, ed aveva in principio lo scopo di "contenere" i bambini sottraendoli ai lavori cui altrimenti sarebbero stati destinati. La stessa struttura fisica delle scuole lo ricorda: le più vecchie hanno ancora l’aspetto di caserme o di ospedali: edifici perlopiù senza giardino, con lunghi corridoi e stanzoni enormi dove potevano essere contenuti fino a trenta, quaranta o anche cinquanta alunni. Oggi le scuole si sono dotate di ampi giardini, laboratori e spazi gioco, ma perlopiù vengono poco utilizzati: si tratta di spazi di "ricreazione" che stanno ai margini della formazione ufficiale dello studente.
Inizialmente la scuola aveva la funzione uniformante di alfabetizzare e di insegnare a far di conto, e nient’altro. Solo in seguito si è data la funzione di formare l’ "uomo ideale", che è quella oggi dominante.
Con questa premessa intendo dire che all’insegnante viene oggi prospettato lo scopo elevato di formare nel bambino e nel ragazzo l’uomo ideale, ma la struttura reale su cui questo "nobile scopo" si poggia resta massificante e anonima. L’insegnante si trova spesso di fronte a classi di trenta alunni, talvolta anche di più; bambini e ragazzi di appartenenze sociali le più varie, molte delle quali inviano i figli a scuola per puro obbligo, altre invece chiedendo all’insegnante prestazioni universitarie… Non solo i ragazzi, spesso anche i bambini, hanno problemi caratteriali e talvolta intellettivi che si trascinano da un’appartenenza sociale carente e problematica… A fronte di tutto ciò, l’ideologia ufficiale prospetta la scuola come una struttura di alta formazione personalizzata! E’ chiaro che l’insegnante è oggetto di messaggi profondamente confusivi.
Qui interviene la variabile psicologica soggettiva.
Per ciò che attiene al dato psicologico occorre fare alcune precisazioni riguardo al "carattere" del docente che rischia il crollo psicofisico.
Innanzitutto, di solito egli è una persona motivata, di carattere sensibile e altruista, profondamente compreso del suo ruolo, che sente investito di un elevato valore sociale. Egli non ha scelto di fare l’insegnate per diventare ricco, lo ha scelto per motivazione profonda, quand’anche in taluni casi sia stato un "ripiego". A scuola, egli si trova immesso in una realtà del tutto sconnessa rispetto alla prescrizione ideologica ufficiale (che spesso coincide con la sua motivazione soggettiva), ossia di formare l’uomo ideale, e ciò genera in lui un grave conflitto cognitivo ed emotivo. Deve continuare a credere o deve vedere la realtà? Talvolta pensa di essere in difetto lui, talaltra che a essere in difetto siano gli alunni (o le famiglie). Si rifiuta di vedere che in difetto è la sconnessione tra scopi ideologici ufficiali (e suoi personali) e realtà di fatto. Perché se vedesse questa realtà egli rischierebbe di dubitare della società nel suo complesso, e il suo lavoro personale si rivelerebbe di minore importanza rispetto a quanto dichiarato.
A questo punto subentrano confusione, scoraggiamento, senso di inadeguatezza, infine rabbia più o meno cosciente e più o meno repressa.
A proposito della confusione delle ideologie cui siamo sottoposti anche nelle professioni di auto, consiglio di leggere il mio libro "Crescere in un mondo malato" (Franco Angeli editore), che mostra l’impotenza in cui viene ridotto l’individuo allorchè ha messaggi ideologici contrastanti. Si pensi per esempio al conflitto tra permissivismo sessantottino, che chiede che alla scuola debba accedere il maggior numero possibile di studenti, i quali di conseguenza devono essere licenziati senza danni, e il codice meritocratico che al contrario presuppone il massimo di impegno e quindi il massimo di selezione. Cosa può fare l’insegnante di fronte a codici così diversi? Ogni giorno egli deve confrontare una realtà approssimativa con programmi rigorosi e motivazioni elevate: come può fare allora a sopravvivere psicologicamente?
D: E quindi, secondo lei, esiste una predisposizione al burn out o eventi che predispongono agli atteggiamenti?
R: Come ho scritto nei miei libri, la predisposizione al disagio psicologico è univocamente la sensibilità: essa, nel caso dell’insegnante, impone un senso di responsabilità individuale, non condiviso con altri nè diluito nel marasma della scolarità di massa. Egli pecca, perché per natura è sensibile e fiducioso, di un eccesso di fiducia negli scopi sociali manifesti.
Ovviamente, una delusione riguardo alla propria vocazione, o alla formazione universitaria, che è costata denaro e fatica dando poi poca gratificazione, o delle critiche ingiuste da parte delle famiglie o del direttore didattico, sono spesso eventi scatenanti del conflitto interno che porta al burn out.
D: Molti colleghi si chiedono come mai, a parità di situazioni stressanti, alcuni docenti arrivino al burn out e altri no. Lei cosa ne pensa?
R: Insisto che il problema è l’elevata dotazione del soggetto alla sensibilità sociale che lo fa essere non solo iperresponsabile, ma anche cieco riguardo ai limiti della situazione reale. Le possibilità del ruolo professionale devono sempre essere commisurate alle possibilità che offre la situazione reale. Se manteniamo vivo un certo pragmatico disincanto sulla realtà, e ci muoviamo su scopi molto concreti, anche se talvolta limitati, evitiamo il crollo psicologico.
Bene dottor Ghezzani, concludendo questo scambio penso di potere accogliere, come spunto di riflessione, il suo invito alla concretezza e alla criticità, in sintesi, ad un atteggiamento meno
personalistico e personalizzante; a guardare alla realtà dei fatti e a sentirsi meno investiti di doveri che , di fatto, si scontrano con situazioni non favorevoli.
La ringrazio, insieme alla redazione di Meridiano Scuola, per questa intervista in esclusiva, ed invito i nostri lettori ad approfondire la tematica trattata visitando il suo sito : http://www.psyche.altervista.org.
Rosa Maria Lombardo
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