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Il Cappellaio Matto esisteva davvero. Ecco cosa si nasconde dietro il personaggio di Lewis Carroll

Chi non ricorda l’incredibile personaggio del cappellaio matto che compare in due romanzi di Lewis Carroll, il celebre Alice nel paese delle meraviglie del 1865 e in Attraverso lo specchio del 1871.

Un personaggio riuscito: divertente, irriverente e bizzarro che indossa un grosso cappello sul quale è ancora indicato il prezzo (dieci shelling e sei pence, ovvero mezza ghinea).

Il reverendo Carroll – uomo eclettico che oltre a essere uno scrittore, un poeta, un prete anglicano, fu prima di tutto un insegnante di matematica e logica per più di vent’anni e un appassionato di fotografia – era certamente un uomo pieno di fantasia e inventiva, ma è lecito oggi chiedersi da quale cilindro magico abbia tirato fuori un’idea tanto particolare. Il punto è: come mai proprio un cappellaio? Ci avevate mai pensato? Come mai Carroll non scelse un macellaio o un’altra figura professionale?

A volte è possibile ricostruire il processo ideativo di uno scrittore e anche in questo caso, per quanto l’opera di Carroll sembri tanto lontana dalla logica che amava insegnare e dalla realtà, proprio la storia della scienza ci viene in soccorso.

Carroll infatti conosceva bene il mestiere del cappellaio, che nell’ottocento era spesso vittime di avvelenamento da mercurio. Per feltrare i peli della lepre o del coniglio e ottenere un effetto brillante gli artigiani dei copricapo versavano sulla superficie esterna del cappello un po’ di mercurio sciolto nell’acido nitrico.

I cappellai divennero così una delle tante categorie di lavoratori (specchiai, decoratori e molti operai dell’industria tessile) che nel diciannovesimo secolo andavano soggetti ai terribili effetti dell’avvelenamento da mercurio: confusione mentale, perdita della memoria e visione sfocata.

Ma con l’aumentare dell’esposizione ai vapori aumentavano anche i sintomi psichici: con allucinazioni e disturbi della personalità, fino alla comparsa di problematiche fisiche come eritemi, spossatezza e poi dissenteria e vomito che rendevano il soggetto sempre più debole e incapace di lavorare. Nei casi più gravi le vene si assottigliavano a tal punto da rompersi generando pericolose emorragie che potevano portare alla morte tra atroci tormenti.

Se oggi il problema è noto, durante la vita di Carroll l’argomento era dibattuto da scienziati e medici alla ricerca di una causa e di possibili soluzioni. Molti erano i casi più bizzarri citati dagli articoli scientifici.

È dunque probabile che il nostro eclettico autore, alla ricerca di idee per i suoi fantasiosi racconti, si sia ispirato a uno o più casi per dar vita a questo personaggio straordinario che è però molto più vicino alla realtà di quanto non si immagini oggi.

Il cappellaio matto, ma più in generale potremmo dire tutta l’opera di Carroll, ci ricordano che la fantasia e la creatività non sono doti innate che nascono da percorsi individuali e misteriosi, ma sono invece il frutto di un’attitudine. Il risultato dell’impegno e di un’insaziabile curiosità. La fantasia, in altre parole, nasce da uno studio attento della realtà.

Dario De Santis

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