Il direttore del carcere di San Vittore racconta all’AGI: “Abbiamo oltre 250 ragazzi sotto i 25 anni su 850 detenuti, è un numero che sta crescendo tantissimo. Il disagio giovanile sta diventando talmente grande che il sistema non è più in grado di reggerlo e tocca al carcere farsene carico. La maggior parte sono stranieri ma ci sono anche italiani, a volte di seconda generazione”.
“Le abbiamo provate tutte negli ultimi due anni, senza risultati. Li tieni in cella e litigano, li fai uscire e continuano a litigare. Provi delle attività di intrattenimento o con la scuola ma non bastano. Il carcere potenzia situazioni che già esistono. Stiamo cercando di agganciarli con altri progetti perché il problema non è ricondurli a un ordine solo imposto ma che venga vissuto come tale. Se non costruiamo il loro futuro tutto quello che facciamo qui dentro è inutile”.
“San Vittore rappresenta uno spaccato allarmante di ciò che accade nella città, di tutte quelle situazioni che non si riescono a gestire e sfociano in reati perché non si è riusciti ad agganciare o a prevenire il malessere. E l’unico posto dove paradossalmente possono essere gestite è il carcere che sta diventando la risposta automatica alla marginalità. Le persone che arrivano hanno per lo più problemi di tossicodipendenza o dipendenza dai farmaci. Alcuni sniffano l’intonaco, altri si fumano qualsiasi cosa o si bevono il gel igienizzante perché contiene alcol”.
A San Vittore i tossici ‘certificati’ sono 450, per cui il carcere non è il posto idoneo alla loro gestione e avrebbero bisogno di altro, di cure e interventi specialistici.
I pochi psichiatri che ci sono fanno miracoli. Il carcere è l’unico posto dove sei obbligato a prendere le persone e a gestirle col grande limite che dentro non è scontato, mentre si viene a sapere che nell’ultimo anno ci sono stati dei suicidi. E si viene pure a sapere che “Le persone che si sono tolte vita erano tutte seguite da diversi operatori. Avremmo potuto o dovuto controllare di più? Non è solo un problema di controllo. Spesso ci sono situazioni di sofferenza e carenza pregresse che in carcere non è facile affrontare e che presuppongono un progetto sull’esterno”.
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