Il “caso Bellanova” sta animando il web. C’è chi ironizza sul blu elettrico del suo abito e chi rimarca la scarsa cultura scolastica. Al di là delle note di colore il caso mette però in evidenza il rapporto non risolto fra cultura “alta” e cultura materiale, fra competenze della mente e competenze della vita reale. Ne parliamo con Fabrizio Dacrema, responsabile nazionale di Auser Cultura, con un passato di sindacalista della Cgil ed esperto sul tema del rapporto scuola-lavoro.
La ministra Bellanova è oggetto di critiche pesantissime perché è “solo” una bracciante con la terza media. Secondo lei da cosa deriva questo disprezzo per il lavoro manuale?
Permane in Italia un’arcaica mentalità di classe che disprezza il lavoro e il sapere generato dal lavoro. La stessa che colpì il bracciante Giuseppe Di Vittorio definito “un cafone in Parlamento”. L’anomalia italiana è che questa mentalità ostile alla cultura del lavoro ha coinvolto anche settori significativi della sinistra ostile agli apprendimenti realizzati in contesti non formali e informali in nome del valore esclusivo dei titoli rilasciati dalla scuola statale. Sono gli stessi settori che hanno combattuto l’obbligo all’alternanza scuola lavoro. Tra l’altro a suo tempo molti di quelli che oggi giustamente difendono la Bellanova attaccarono per gli stessi motivi la ministra Fedeli. La differenza forse la fa la collocazione politica rispetto al governo. Ma quale sia la ragione è indubbiamente un passo avanti.
Non le pare un po’ curioso che si possa diventare ingegneri avendo frequentato il liceo classico e senza aver mai preso in mano un cacciavite?
È inaccettabile la separazione tra scuola, università e lavoro che continua a caratterizzare la maggioranza dei percorsi formativi. Non è tanto l’attività manuale spicciola a fare la differenza quanto il poter mettere alla prova le conoscenze teoriche per risolvere problemi reali. E la conoscenza delle tendenze di sviluppo dei settori lavorativi connessi agli indirizzi di studio.
E perché si fa fatica a costruire un modello formativo che integri efficacemente lavoro intellettuale e lavoro manuale?
Ci sono resistenze corporative nelle scuole spesso ammantate da ragioni ideologiche. E c’è l’arretratezza di molte imprese, specie le piccole, incapaci di co-progettare percorsi formativi con scuole e università. L’obbligo all’alternanza scuola lavoro introdotto dalla legge 107 poteva essere una buona occasione per costruire sistemi territoriali adatti all’interazione, formando innanzi tutto docenti e tutor aziendali. Ma il fronte della conservazione ha vinto un’altra volta: il precedente governo ha così indebolito pesantemente l’alternanza tagliando ore e risorse.
La scuola non ama mai molto confrontarsi con il mondo del lavoro e men che meno con il lavoro manuale. Per quale motivo secondo lei è difficile invertire questa tendenza?
Sviluppare l’interazione tra scuola, lavoro e territorio e praticare la didattica delle competenze significa cambiare profondamente il modo lavorare della maggior parte degli insegnanti tuttora basato sulla trasmissione di contenuti e la separatezza disciplinare. Ovvio che si resista, cambiare costa fatica. D’altra parte dopo il ministro Berlinguer nessun governo, in qualità di datore di lavoro, ha più provato a realizzare contrattualmente uno scambio tra innovazione didattica e valorizzazione professionale. Nelle prime dichiarazioni del nuovo ministro non c’è traccia di questi temi. Ma in questi tempi “interessanti” sono sempre possibili svolte inaspettate.
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